Pescina, il Berardo di Placido domina ancora la scena: «Sempre un’emozione»

foto di Marcello De Luca
Uno dei volti più celebri del cinema italiano dà voce al romanzo nel corso dell’evento del Centro. Quarant’anni fa il capolavoro di Lizzani in cui fu protagonista
PESCINA. Come Tom Cruise in Top Gun 2, come Harrison Ford nell’ultimo Indiana Jones, Michele Placido sale sul palco del teatro San Francesco di Pescina ed è di nuovo Berardo Viola, dopo quarantacinque anni da quel Fontamara che gli regalò uno dei suoi ruoli più iconici. Così gentile e cordiale, disponibile allo scherzo, felice di uno spunto fuori scaletta.
Forse non più quel volto giovane e affilato, l’occhio furbo e inquisitore, il baffo scuro e folto di quello che era allora un 34enne nel fiore del suo successo, ma come ha detto Francesco Merlo «ci sono tanti modi di invecchiare, e diventare generosi è il modo più bello», e aggiunge: «Il Rinascimento italiano è costruito sulla bottega, sui grandi maestri».
Anche se Placido, che fra due settimane spegnerà 79 candeline, non vuole dirsi maestro di nessuno: «Non ho insegnato mai nulla». Ma riconosce i suoi allievi: «Li ho cresciuti tutti considerandoli come figli», dice, anche se incalzato da Domenico Ranieri ammette: «Lino Guanciale mi sembra, in questo momento, quello che meglio rappresenta l’attore contemporaneo. Si muove sul palco in modo miracoloso, ricorda Mastroianni». Ma niente supera la naturalezza con cui, leggendo un passo e poi un altro, quasi sprofondato in una poltroncina, Placido scherza, si ferma, sceglie e cambia continuamente il ritmo, coinvolge il pubblico, aggiunge qualche nota personale per fare veramente suo il testo, chiama la musica, si alza e poi si siede, con il leggio e poi senza, fa domande alla platea, a volte non si capisce quando finisca Silone e inizi Placido.
Un miracolo concesso solo dagli anni e dall’esperienza macinata per mezzo secolo di carriera: quello che un giovane attore farebbe in lupetto nero in piedi, plastico davanti a un leggio, al buio sotto una luce che gli conferisca qualche mistero caravaggesco, Placido lo fa con una semplice camicia a quadretti, senza la parvenza di un impegno, essendo semplicemente se stesso.
Per questo è meno verace del suo indimenticato Berardo Viola, ma è perfetto quando legge le pagine autobiografiche del Silone di Uscita di sicurezza, il dolore della sua prosa, la malinconia celata dietro la scelta del lessico, di certe parole, che non deve far altro che pronunciare come farebbe nella quotidianità, come farebbe sceso dal palco. Sopra e sotto il palco non c’è più differenza, la vita e il teatro si sono fuse, non esiste più l’uomo e l’attore, l’abito di scena e quello di tutti i giorni, ma soltanto Michele Placido, canuto e saggio, triste e divertito, «ateo e mistico» come si definisce parlando del suo incontro con Papa Francesco (voluto proprio dal Pontefice).
Poi, la musica torna a fare capolino e lo si vede pensoso, con gli occhi bagnati dalla commozione di un ricordo, una sensazione. Dietro quello sguardo c’è forse una domanda: che fare?