Serena Rossi all’Aquila, l'intervista: «Canto i volti della mia Napoli»

11 Luglio 2025

L’attrice partenopea in scena il 19 luglio con “SereNata”. Un grande show musicale che è un omaggio alla sua città, «dove nessuno è straniero»

L’AQUILA. La tournée primaverile ha registrato sold out ovunque e le date estive sono già un successo: sabato 19 luglio Serena Rossi arriva anche all’Aquila, Scalinata San Bernardino, con SereNata a Napoli (AgataProduzioni) nel tour che la porterà a Verona per il gran finale al Teatro Romano. Uno spettacolo ideato e interpretato dalla celebre attrice partenopea, scritto da Maria Sole Limodio e Pamela Maffioli e dedicato alla sua città attraverso le canzoni della tradizione con cui se ne tratteggia anche un profilo storico e psicologico: «È un città storicamente accogliente», spiega Serena Rossi ai microfoni del Centro, «nessuno è straniero qui, questo mi rende orgogliosa».

Dalla leggenda di Partenope al canto dei vicoli, dai suoni delle feste popolari alle ninne nanne che hanno cullato generazioni, Serena Rossi, diretta da Maria Cristina Redini, sale sul palco insieme a un’orchestra composta da sei elementi, guidata dal Maestro Valeriano Chiaravalle e con Gennaro Desiderio (violino), Gianpaolo Ferrigno (chitarra), Antonio Ottaviano (pianoforte, clavicembalo), Michele Maione (percussioni), Matteo Parisi (violoncello) e Luca Sbardella (fisarmonica, clarinetto). In questo viaggio musicale, scenografico (con le immagini dell’Istituto Luce e i disegni di Flora Palumbo), di grandi costumi (firmati Laura Biagiotti) e atmosfere che ti avvolgono come una guaina, Napoli è una donna, una sirena mitologica, una storia di mille volti e una mente di mille colori. Una città vissuta e attraversata nella vita e poi al cinema (con Song’è Napule e Ammore e Malavita), a teatro (ha iniziato proprio con la prima versione di C’era una volta… Scugnizzi) e in televisione (con Un posto al sole, poi con Mina Settembre).

Serena Rossi, adesso tocca a lei raccontare Napoli. Ma qual è il modo giusto per farlo?

«Non lo so, perché il bello della mia città è che ha tante anime. È complessa, umana, ricca di storie, sfumature, quindi capisce che non c’è un modo solo di raccontarla e sul palco queste anime vengono fuori tutte».

Lo fa con le canzoni, che non sono mica poche. Come le ha scelte?

«Quella è stata la parte più difficile: pescare da un calderone così ampio, far durare lo spettacolo il giusto, dargli uno spirito sia storico che musicale. L’importante era trovare la formula per il giusto equilibrio».

L’ha trovata?

«Sì, alla fine si è sviluppato tutto in modo molto naturale nonostante la complessità della materia. Viene fuori un racconto costruito tutto attorno alle canzoni, che sono il vero cuore dello spettacolo».

Me ne dice una da far sentire a chi di Napoli non sa nulla?

«Ce l’ho: Tammurriata nera».

Pensavo di metterla in difficoltà…

«No, l’avevo già in mente perché è una canzone notissima e che racconta il lato di Napoli che io amo di più in assoluto».

Quale?

«L’inclusione. Napoli è una città storicamente abituata ad accogliere tutti, persino i suoi dominatori. Nessuno è straniero nella mia città e questa cosa mi fa sentire orgogliosa. Tammuriata nera parla anche di questo».

Ce la racconta?

«È la storia di una donna che nel secondo dopoguerra – Napoli era rasa al suolo ma si era liberata dall’occupazione – mette al mondo un bambino nero avuto da un soldato americano. Lei lo accetta e gli dà un nome tipicamente campano, Ciro. Per citare Filomena Marturano, e figlie so’ ffiglie. James Senese, per dire, è nato da una napoletana e da un soldato americano».

A proposito, dei tanti artisti napoletani ce n’è qualcuno passato un po’ in sordina che lei porta sul palco?

«C’è un passaggio dello spettacolo dedicato a una cantante per me importante, Ria Rosa. Napoletana nata nel 1899, cantava Preferisco il ’900. Era una protofemminista».

Adesso vogliamo i dettagli.

«Era una giovane che scandalizzava per i testi delle sue canzoni, per le performance in cui si travestiva da uomo. Fu la prima artista a farlo. Parlava di emancipazione femminile, usava la musica per raccontare le ingiustizie del suo tempo. Sotto il fascismo fuggì in America».

Un paese più libero.

«Fu sovversiva anche lì, con una canzone che parlava dell’innocenza di Sacco e Vanzetti, i due anarchici condannati a morte proprio in quegli anni. Ma vuole sapere la cosa più incredibile?».

Ci dica.

«Ria Rosa era la mia prozia, nello spettacolo lo racconto».

Come De Sica nipote dell’assassino di Trotsky. Quando lo racconta, il pubblico come reagisce?

«Chi scopre Ria Rosa con le canzoni che canto sul palco poi viene sempre a dirmi che l’ha amata, che vuole recuperare tutti i suoi lavori. Anche perché oltre ad essere una grande artista sociale, faceva morire dal ridere».

La musica napoletana di oggi ha ancora qualcosa da dire?

«Sì, mi piace che Napoli sia al passo con i tempi e artisti come Liberato o Geolier abbracciano un tipo di musica che è contemporanea ma che con la lingua, con certe sonorità raccontano ancora la loro terra. La mia preferita però è La Niña. Il suo album Foresta è incredibile. Sì, di artisti bravi ce ne sono davvero tanti».

Ma è vero che a Napoli cantano tutti?

«Lo chiede a me? Io vengo da una famiglia di musicisti, in casa non c’era mezza persona che non cantasse (ride, ndr). Cantava mio padre, mia madre, mia zia. Nello spettacolo racconto anche questo».

Per una ragazza che è cresciuta con il sogno del canto, uno stimolo.

«Napoli è una sirena, è Partenope che cantava provando un dolce dolore. Quindi la musica da noi è intrinsecamente legata alla città, si canta per comunicare qualcosa, come il canto di una sirena».

Mi ha messo la domanda in bocca: il film di Sorrentino, “Parthenope”, rende giustizia al volto della città?

«Non l’ho ancora visto, ma ero madrina di Venezia quando ha presentato È stata la mano di Dio. Amo molto il suo percorso artistico, è un genio visionario ed è figlio della mia terra».

L’ultima domanda viene da sé.

«Certo, lavorare con lui sarebbe bellissimo. Chissà».

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