Vi racconto il Che: mio padre, un vero uomo

Parla Aleida Guevara, figlia di Ernesto: la sua religione fu il popolo. Quand’era ministro scoprì che i collaboratori avevano cibo peggiore del suo. E si infuriò. A mia madre scrisse lettere bellissime
E’ normale che una figlia sia innamorata della memoria del padre. Ma se il genitore in questione si chiamava Ernesto Che Guevara, ecco che l’affetto filiale si unisce all’ammirazione di colui che fu un simbolo, forse il più grande, della rivoluzione mondiale, della lotta degli oppressi contro gli oppressori. Aleida Guevara ieri era a San Salvo, per una serata speciale nel quadro delle celebrazioni per il 65° anniversario dell’occupazione del Bosco Motticce da parte dei contadini. E davanti a un pubblico straripante (in prima fila anche il sindaco di centrodestra, Tiziana Magnacca) ha risposto alle nostre domande.
Aleida, chi era Che Guevara? Ce lo racconti nel pubblico e nel privato.
«Era un uomo che cercava sempre di migliorare se stesso. Non credeva in nessuna religione, ma credeva nell’uomo e al centro di ogni sua azione c’era il popolo. Spesso le persone di sinistra si preoccupano troppo della parte intellettuale della politica e si distaccano dalla realtà: un rischio che mio padre non correva».
In che modo era vicino al popolo?
«Dopo la rivoluzione, a Cuba fu nominato ministro: un giorno parlando con i dipendenti del ministero si rese conto che la loro alimentazione era ben diversa dalla sua. Scoprì che a lui erano accordati privilegi che immediatamente sospese. Diceva: un dirigente deve avere le stesse condizioni di vita del popolo, portare gli stessi vestiti, le stesse scarpe».
Che tipo di uomo era?
«Un uomo molto coerente, che diceva quel che pensava e faceva quel che diceva. Ed era un uomo molto romantico, che amava moltissimo mia madre, come dimostrano le sue lettere, che oggi tutti possono leggere».
Essere figlia di un mito della rivoluzione, a Cuba, è stato un privilegio o un peso?
«E’ stato un grande privilegio, ma non nel senso di averne avuto dei vantaggi. Mia madre è sempre stata molto esigente con noi e questo è stato un bene. Ma noi siamo cresciuti facendo tutto quello che facevano gli altri ragazzi a Cuba, nessuno sapeva chi eravamo. Appena laureata medico, andai in missione umanitaria in Nicaragua e mi alternavo in sala operatoria con una collega. Una sera la tv proiettò un documentario in cui venivo intervistata sulla vita di mio padre. La mattina dopo la collega mi apostrofò per il fatto di non averle detto di chi ero la figlia».
E lei come reagì?
«Le dissi: io non ti ho chiesto come si chiama tuo padre, devi giudicarmi solo per quello che so fare. E un’altra volta sa che cosa accadde?».
Ce lo racconti.
«Avevo visitato un bambino di nove anni e alla fine firmai il certificato. Quando la madre vide la firma, ad alta voce disse: ma allora lei è la figlia del Che. Al che il piccolo tornò indietro, mi guardò e sussurrò: adesso ho capito perché sei così brava».
Lei ha detto di non essere religiosa, come suo padre. Ma oggi nel mondo c’è grande speranza su quello che può fare Papa Francesco per la causa dei più deboli.
«Sa che cosa diciamo a Cuba? Che un cattolico veramente credente è molto simile a un vero comunista. Per me credere è molto difficile da quand. o a 26 anni andai in Angola a fare il mio lavoro di pediatra e mi ritrovai nella terribile situazione di dover scegliere quale far sopravvivere tra tre bambini gravemente ammalati: non c’erano i soldi per le medicine di tutti e tre. Ma al ritorno da quel viaggio feci tappa a Roma e visitai i Musei Vaticani: lì vidi con orrore che uno solo di quei tesori sarebbe bastato per comprare i farmaci per migliaia e migliaia di bambini».
Quindi non crede nella svolta impressa da Francesco.
«Se riuscirà a far sì che ci sia più rispetto per gli umili e per i bambini, sarò la prima a gridare: alleluja. Pensi che quando non aveva neppure dieci anni la mia figlia più piccola mi disse che voleva andare in chiesa. Io le dissi: vai pure, ma io non ti accompagno, non condivido quel che dicono i preti. Lei andò lo stesso, ma per mia fortuna proprio in quel momento entrò in chiesa anche un cane. Il parroco lo cacciò e mia figlia gli disse: non è anche lui un figlio di Dio? E non si fece mai più vedere».
Che cosa direbbe il Che, se potesse vedere la Cuba di oggi? All’estero siete stati criticati per la repressione del dissenso e le condizioni economiche spesso sono state difficili...
«Abbiamo fatto i nostri errori, ma abbiamo fatto anche grndi sforzi per essere coerenti con le nostre idee. L’Argentino, come lo chiamavano a Cuba, forse ci tirerebbe le orecchie, ma in fondo ne sarebbe felice. Veniamo da anni durissimi: stavamo salendo su una scala e ce l’hanno tolta da sotto. Mi riferisco all’embargo voluto dagli Stati Uniti: non ci hanno impedito solo di commerciare con loro, ma con tutto il resto del mondo. L’FBI minacciava chiunque intrattenesse rapporti con noi, ma a Cub per esempio non produciamo latte e per acquistarlo dovevamo andare fino in Nuova Zelanda. La sa la storia della Ferrari?».
No, che c’entra con voi?
«I nostri camion erano sovietici e consumavano un sacco di benzina, che arrivava in quantità dall’Urss. Quando a Mosca cadde il comunismo il flusso si interruppe e pensammo di acquistare i migliori motori del mondo, quelli della Ferrari. C’era già un accordo, ma l’FBI scrisse una lettera a Maranello chiarendo che non avrebbero mai più venduto un’auto negli Stati Uniti, se avessero formato quel contratto. Vidi io la lettera».
Che cosa significa oggi essere comunisti?
«Significa dare il meglio di te stesso ad un altro essere umano, migliorarti sempre, essere l’avanguardia della società. E non essere stronzi, ma avere rispetto degli altri. Io l’ho imparato in Venezuela, da un’indigena che non si voleva far curare da una dottoressa bianca. Le chiesi perché e lei mi rispose: volete sapere chi sono, come mi chiamo, ma se ho dolore perché mi chiedi tutte queste cose?».
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