Walter Siti al Fla, l’intervista: «La letteratura è il salario del diavolo»

Lo scrittore e saggista presenta la sua ultima opera sulla Generazione Z. E agli atenei consiglia: «Non serve proibire o censurare ma bisogna spiegare, anche davanti alle violenze. Mai vietare la lettura»
PESCARA. «Ma i teenager della Generazione Z desiderano essere salvati? Alcuni, i più esposti, quelli che con le proprie ali fendono l’aria per tutto lo stormo, forse ce lo chiedono con due posture apparentemente contrapposte: gli uni si mostrano abulici, depressi, si tagliuzzano le braccia e le gambe, trasformano la propria stanza in un bunker; gli altri, nati perlopiù in quartieri meno comodi, si riuniscono in bande, aggrediscono e vandalizzano, non si sottomettono e costituiscono la disperazione dei professori di periferia. Invece, quelli che nello stormo si tengono al centro, al riparo, adottano una strategia meno appariscente: si defilano, si appiattiscono, vanno bene a scuola, dissimulano perfino di stare volando. Mimetizzano la propria fragilità sotto una innegabile fragilità generale».
Walter Siti, tra i maggiori scrittori e critici italiani, Premio Strega 2013 col romanzo Resistere non serve a niente, autore di romanzi e saggi in cui indaga desideri, ossessioni e contraddizioni, nel recente libro La fuga immobile. Lo strano caso della Generazione Z (Silvio Berlusconi editore, 18 euro, 168 pagine) riflette sulla fragilità della Gen Z e ne fa un paradigma interpretativo per comprendere il nostro tempo e i suoi mutamenti.
Oggi Walter Siti sarà a Pescara, ospite del Fla Festival di Libri e Altrecose alle 19.30 nell’auditorium Petruzzi (via delle Caserme, 60) per parlare dei contenuti del suo nuovo saggio con lo scrittore pescarese Alessio Romano, curatore della sezione Real World. Nel pamphlet il saggista modenese si chiede cosa significhi crescere oggi, in un mondo in cui tutti si dichiarano sensibili, feriti, vulnerabili. E prova a raccontare questa fragilità senza giudicarla né idealizzarla. Il titolo del libro mutua un verso dell’amato Eugenio Montale, posto da Siti a esergo, “Lascia che la mia fuga immobile possa dire/forza a qualcuno o a me stesso”.
Professore, in “La fuga immobile” riflette sulla fragilità dei giovani all’interno di una fragilità generale. Non offendono per non essere offesi, cercano spazi sicuri nelle scuole e nelle università, fuggono da responsabilità e conflitti. Sono davvero così vulnerabili? Viene anche da chiedersi, che adulti saranno?
«Cercano di non farsi notare. Ho questa impressione dei ragazzi occidentali, europei e nordamericani. Invece in altre parti del mondo ci sono spinte diverse, ha importanza lottare per questioni immediate e concrete. Penso ai giovani iraniani, che sono contro gli ayatollah, l’autoritarismo, le proibizioni, là il discorso è diverso. Quanto alla gioventù occidentale, non l’abbiamo preparata al futuro, parlo di quelli nati dopo il 2005, è come se li avessimo abituati a non offendere nessuno per non essere offesi, un atteggiamento molto cauto nell’affrontare le relazioni e allo stesso tempo iperprotettivo da parte dei genitori. Ma questa generazione ora si trova esposta a un mondo sempre più aggressivo, c’è una gran voglia di guerra in giro, Trump, i russi, la questione palestinese. Temo non siano preparati a questo, da una parte c’è l’educazione e dall’altra qualcosa che gli si rovescia contro. Ho provato a chiedere ad alcuni di loro se sarebbero disposti a combattere per la loro patria e le risposte sono state negative: “non mi faccio trovare”, “mi sparo su un piede”. Tutta la mitologia guerresca, che si trovava per esempio in canzoni come Addio, mia bella, addio, è una cosa difficile da ricreare se non in una chiave molto di destra».
In che senso?
«In chiave vittimistica. Per la generazione Maga, quella del Make America great again, la patria è in pericolo per la presenza degli immigrati, dei musulmani, per la sostituzione etnica. Secondo loro per quello vale la pena combattere. Ma è una chiave che la sinistra non può gestire, puntando invece su accordi internazionali, sulla pace».
Però a New York è stato appena eletto un sindaco musulmano.
«Una rondine non fa primavera».
Anche nelle università italiane, dopo quelle americane, si diffonde la sensibilità woke con la creazione di safe spaces per tenere al sicuro gli studenti da tutto ciò che può offendere o turbare, cancellando il politicamente scorretto e perfino certe materie di studio, o almeno certi termini. Ma si riesce a crescere e a diventare adulti senza il confronto, il conflitto?
«Questa storia della cosiddetta cultura woke è molto curiosa. In realtà viene da riflessioni sofisticate, europee, soprattutto francesi, degli anni Settanta del Novecento. Trasportata negli Usa si è incontrata con un clima diverso, in particolare le rivendicazioni accese dei neri, i movimenti black di protesta, ed è diventata una serie di studi universitari sul fatto che ogni posizione naturale è frutto in realtà di un rapporto di potere. Questo ha condotto all’affirmative action, alla discriminazione positiva, per promuovere i ceti e i gruppi storicamente penalizzati, portando a conseguenze un po’ assurde e a una reazione contraria. Certi eccessi della cultura woke hanno procurato molto consenso a Trump, che ora si vendica andando contro quelle università, Yale e Harvard, che l’avevano promossa».
Ha esperienza universitaria, è stato professore di letteratura italiana contemporanea all'università dell’Aquila. Che consiglio darebbe agli atenei?
«Penso che questa tendenza si stia esaurendo e anche le università si stiano accorgendo di certi eccessi. La cosa migliore non è proibire o censurare ma sempre spiegare. Credo che di fronte a libri violenti, in cui ci sia, per esempio, il maltrattamento delle donne, o che sembrino incoraggiare la pedofilia, penso a Lolita di Nabokov, si debba sempre spiegare. Piuttosto che non far leggere certi libri ai ragazzi perché potrebbero restarne traumatizzati occorre invece leggerli e spiegare perché lo scrittore ha scritto quel che ha scritto. Non è giusto nelle università proibire o impedire l’ascolto di conferenze di esperti che potrebbero “sconvolgere” i ragazzi. Tempo fa negli Stati Uniti è stata impedita la conferenza di un esperto sul suicidio, temendo il contagio. Anche su temi molto controversi discutere è la cosa migliore. Non ci devono essere safe spaces, se abituiamo i ragazzi a zone sicure nella letteratura e nelle università non li prepariamo al mondo, dove, ahimé, non ci sono spazi sicuri. Se non forse la famiglia».
Ha curato l’opera omnia di Pier Paolo Pasolini per i Meridiani Mondadori. Un lavoro monumentale. Oggi qual è il lascito più duraturo di PPP nelle lettere italiane e non solo?
«Bisogna distinguere due aspetti diversi, uno strettamente letterario e uno letterario-ideologico. Sul piano letterario, le cose migliori sono in alcune poesie. “Una disperata vitalità” è la migliore poesia italiana degli anni Sessanta. Invece, stando attenti anche all’aspetto polemico, le opere più durature sono i due libri che raccolgono gli articoli pubblicati sulle pagine del Corriere della Sera e del Mondo – Scritti corsari e Lettere luterane – espressioni di un modo di fare giornalismo che non è più possibile oggi, articoli che scatenavano un’onda polemica molto forte che durava a lungo, mentre oggi qualunque articolo viene annegato dai social dopo due ore. Credo che restino anche alcuni film, Accattone, La ricotta e Che cosa sono le nuvole? (questi ultimi due rispettivamente episodi dei film collettivi Ro.Go.Pa.G. e Capriccio all’italiana, ndc)».
Nel gran numero di manifestazioni, retrospettive, mostre dedicate a Pasolini nel 50° della morte, quale secondo lei ne ha catturato l’essenza, al di là della celebrazione e della retorica che lui odiava?
«A questo non posso rispondere perché sono tre anni e mezzo che non mi occupo di Pasolini, perciò non ne ho idea. Nel maggio 2022 (centenario della nascita del poeta, ndc) dopo aver pubblicato per Garzanti la nuova edizione critica e ampliata di Petrolio ho deciso che volevo liberarmi di lui e interessarmi ad altri autori. Poi i divorzi non sono mai facili, ci sono sempre ritorni di fiamma. Invecchiando mi accorgo che avrei voluto dedicarmi anche ad altri scrittori. L’anno prossimo esce un volume con tutti i miei scritti non pasoliniani e preparandolo ho maturato il rimpianto di non aver dedicato più tempo a scrittori come Leopardi e Proust oggettivamente più grandi di Pasolini, al quale forse ho dedicato troppo tempo, cosa inevitabile quando ti considerano un esperto. È andata così, un po’ mi dispiace».
Prima accennava ai social. Non le chiedo qual è il suo rapporto con la tecnologia... «C’ho ottant’anni…».
Ma le chiedo in che modo le categorie tipiche dei social, velocità e brevità, stanno influenzando il lavoro dello scrittore.
«Domanda difficile. Ho l’impressione che questa cosa degli algoritmi, che inviano notifiche e messaggi legati a ciò che si è precedentemente visto di più, ti invada di messaggi di chi la pensa come te, creando bolle antagoniste. Viene rinforzata la propria idea e non ciò che la contraddice, e questo ha creato perbenismo nella letteratura contemporanea, dove si dicono le cose che oggi è bene dire, per la società e per l’individuo, addirittura per aiutare le persone a stare meglio. Una delle caratteristiche della letteratura dovrebbe essere invece portare in superficie i fantasmi che si è cercato di reprimere, ciò che si ha dentro di sé, e questo non sta passando in questo momento in letteratura».
Portare i fantasmi in superficie è l’operazione che ha fatto nei suoi romanzi Scuola di nudo, Troppi paradisi, Il contagio, in cui ricorre la figura, in parte autobiografica, del professore?
«Più che un’operazione, ho dovuto scrivere queste cose perché i mei fantasmi, soprattutto erotici, mi avevano preso alla gola e dovevo farci i conti. Kafka ha detto una cosa che mi appartiene molto: la letteratura è il salario del diavolo. Io ho cercato di tenere aperto un dialogo coi miei diavoli interiori e far affiorare i miei fantasmi e i fantasmi della società e dei tempi che man mano attraversavo».
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