Lucio Fumo, l’inventore del Pescara Jazz: «Flaiano ci ispirò con storie di musica e locali newyorkesi»

Il pioniere abruzzese, 88 anni, racconta l’origine del festival: «Nel 1977 ci contestarono occupando il palco: fu un trauma»
PESCARA. Lucio Fumo, 88 anni. L’inventore di Pescara Jazz. Una vita da bancario e una da artista e pioniere. Domani si racconta in pubblico al Bagno Borbonico in via delle Caserme, a Pescara, alle 18. Una storia fantastica che Lucio racconta così.
Maestro Fumo, lei è il padre del jazz in Abruzzo. Dal 1969 in poi portò tutti i big a Pescara, quando nessuno ci credeva.
«Neanche io, se per questo. Fu una stagione di miracoli».
Come mai?
«(Sospiro) Sa che dopo tanti anni le do una spiegazione da bancario?»
Cioè?
«Pescara era una città nuova. Guardavo le statistiche. Sempre la prima, o per incremento demografico, o per costruzioni nuove».
E c’entra qualcosa?
«Venivano tutti qui. Una capitale giovane, assetata di futuro, aperta al nuovo».
E quindi?
«La musica è sempre figlia di un fenomeno culturale, politico, economico. Il jazz fu l’identità nuova di cui questo nuovo Abruzzo aveva bisogno come il pane».
Dove comincia il nostro racconto?
«A Teramo. Mio padre aveva una caffè con suo fratello: sette vetrine, tre ad angolo, affacciate sulla piazza principale».
Il leggendario “Bar Fumo”.
«Si chiamava Salvatore, mio zio Enrico. In città si diceva: “Ci vediamo da Fumo?»
Bello.
«Non dicevano: “Sotto i portici”. Capisci? Qualcuno ha continuato a dire così anche dopo che il locale chiuse».
E sua madre?
«Antonietta: era casalinga, ma due ore al giorno - per aiutare - faceva la cassa al bar».
Vivevate tutti nel caffè?
«I due fratelli avevano avuto dodici figli, quindi eravamo dodici cugini, famiglia allargata anni cinquanta. Io ero il più piccolo di tutti, nato diciotto anni dopo il precedente».
Il caffè Fumo era una macchina da guerra.
«Bar, gelateria, pasticceria».
E la musica come le arriva?
«Spesso si suonava la sera. Talvolta mia sorella Vecla si esibiva al pianoforte. Erano spettacoli che incantavano».
Altri personaggi?
«Il Marchese Diego De Sterlich, proprietario di un castello e di mezzo Abruzzo».
Un personaggio.
«Ah, senza dubbio. Correva in auto, ospitava i piloti in quel castello, spesso c’era Fangio».
Caspita.
«Sposò una mia cugina, dilapidò una fortuna, alla fine rimase con lei, in affitto, in una stanza a Pineto».
Nessuno ci credeva.
«Ma era vero. Quando una cugina ottenne una particina a Roma, la famiglia decise: “Ti porti dietro Lucio” (ah ah ah). Più efficace di un braccialetto di sicurezza: a sette anni».
E come andò?
«Un sogno. Ogni mattina mi portava all’Opera, mi sedevo per terra e ascoltavo ore».
Rimase per mesi.
«Volarono. Tornai che avevo imparato il barbiere di Siviglia a memoria».
Era un bambino timido.
«Ma dopo cantavo, nel caffè, con il barista Peppino».
Che faceva da ragazzo?
«Andavo tutte le sere al cinema. Da solo».
E la sera?
«Se facevo tardi mi portava a casa Peppino, sulle spalle. Oppure aspettavo mezzanotte con mio padre. Chiudere il bar. Il rito dell’incasso».
Ma la musica era il chiodo.
«Sentivo i dischi a 78 giri con le mie cugine: “Lucio, metti la Traviata”, quando ancora non sapevo leggere».
Come faceva?
«Riconoscevo le etichette. Dormivo tra Vecla e Ada. Poi Ada conobbe uno a Bari e andò in Puglia. Fu un dolore».
Mica andava in America.
«No, ma mi stava dando lezioni di piano. Finirono».
E il jazz?
«Primo contatto in seconda media, al collegio Aterno. Mettevo Woody Herman, il ballo del taglialegna, era un fox-trot e si ballava molto bene».
Caspita.
«Così comprai tutti i dischi di Herman e li misi su».
Risultato?
«Pezzi bellissimi, ma all’inizio non capivo. Li compresi mesi dopo: destino segnato».
Come li comprava?
«Se a scuola andavo bene, papà li pagava. Andavo bene».
Maturità scientifica, e poi?
«Scienze politiche. Mia madre sognava: “Farà il console!”».
Studiava a Roma.
«Andavo in Rai, dove Mazzoletti faceva concerti gratuiti. Andavo sempre, divenni amico».
Una folgorazione.
«Vidi Armstrong al Sistina. Stavo svenendo».
E poi?
«Una storia da gente jazz. Il pianista di Armstrong, Earl Hines, impazzì per Roma. Non partì, suonava tutte le sere in un locale per pagarsi la pensione, e io ero lì: mi venivano le lacrime agli occhi».
Altra storia di jazz, allora.
«Il Principe Pepito Pignatelli. Squattrinato, aveva un locale e una moglie bella, talmente innamorata di lui che si suicidò dopo la sua morte».
Addirittura.
«Lui beveva, talvolta prendeva qualcosa. La lasciò senza una lira. Lei non riusciva a gestire il locale: si soffocò».
Si è laureato in quattro anni, massimo dei voti.
«Ma non ero secchione. Dopo la laurea un colpo di fortuna: mio padre mi porta da un suo compagno di classe che dirige una filiale del Banco di Napoli: “Cosa può fare?”, disse. E quello: “Non posso assumerlo con Scienze politiche! Servirebbe uno che sa le lingue».
E suo padre?
«Non disse nulla, mi spedì a Oxford. A pensione da una zitella con sei stanze. C’era anche una ragazza di Milano che mi diceva: “Non azzardarti a parlare italiano!”. Siamo diventati amici per la vita».
Impara l’inglese in 3 mesi.
«E papà mi manda a Parigi: a pensione al Pantheon. Ogni sera ero al Blue note. Un sogno».
Chi c’era?
«Bud Powell, Kenny Clark alla batteria. E Stan Getz!».
E lei?
«Ero il primo a entrare. Per prendere il tavolino più vicino al pianista».
E Powell?
«Era drogato perso. Non parlava mai con nessuno. Una sera vidi che guardava avido una tavoletta di cioccolata. La sera dopo mi presentai con una tavoletta enorme. Incrociai il suo sguardo e gli dissi: “Do you want chocolate?”».
E lui?
«Mi guarda con aria strana: “I never eat chocolate!”»,
Altri tre mesi e torna.
«Parlavo benissimo inglese e francese. A UniCredit mi assunsero di corsa, era il 1961».
Primo stipendio?
«Una fortuna: 70.400 lire e comprai un collo di pelliccia a mia madre».
E lei?
«Guardò mio padre che disse: “Questo ha uno stipendio, gli dobbiamo prendere una casa!”. Lo fecero. Viale Kennedy: 50 metri dal mare. Sono un uomo fortunato».
Quattro amici al bar.
«Per la pelle: Aldo Franceschini, Luciano Delfino Spica, Vittorio Centola. Più il sottoscritto. Prendevamo le ferie, Sanremo. Da lì a Montecarlo».
Ogni sera un concerto.
«Stagione pazzesca. Poi arrivammo in Svizzera, poi in Francia. Non tornavamo più».
E poi pensate agli altri.
«Il jazz club Pescara nasce così: tutti devono provare questa musica».
Da chi partite?
«Da Gato Barbieri. Lo portammo a suonare da Guerino. Folla pazzesca. Pescara reagiva con curiosità e passione».
E oggi?
«(Sorriso) C’è Mc Donald».
E poi?
«Portammo jazzisti negli alberghi di Montesilvano. Sembrava che esponessimo oro».
Ma i contatti?
«Un’idea stupida cambiò tutto. Andavo a Milano, mettevo giacca, cravatta e – importantissimo – giravo con una 24 ore di pelle lucida. Mi infilavo dritto e mi salutavano: “Buonasera, dottore!».
Possibile?
«Il boom. Erano anni a Milano in cui con una borsa costosa ti scambiavano per Dio».
Finché….
«Dopo mesi Arrigo Polillo, direttore di Musica Jazz, mi inchioda: “Ma tu chi sei?”. Partì come un cazziatone, divenne un’amicizia. Mi aprì le porte di quel mondo».
Torna a Pescara folgorato.
«Serviva il salto: con Mario De Vincentiis fondai l’associazione Amici della Musica».
Primo presidente?
«Ennio Flaiano. Un gigante. Cortese, buono con i giovani».
Ad esempio?
«Un aneddoto: una sera arriva dritto da New York. Inizia a raccontare dei locali, della musica, degli scrittori, della città… Rimaniamo ipnotizzati».
Addirittura?
«Finché qualcuno disse: “Gesù, si è fatta mezzanotte!” Aveva parlato per tre ore. Senza un solo respiro!».
Non era solo jazz.
«Era il mondo che cambiava. De Vincentiis aveva fondato l’associazione del teatro, noi gli Amici della Musica: connettemmo l’Abruzzo a quel mondo».
Serviva un battesimo.
«Riuscii a chiudere un contratto per Duke Ellington. Tre milioni di lire».
Arrivò con la band da Roma, attraversando le montagne.
«E dicevano: “Ma dove siamo finiti?”».
E invece?
«Mille e seicento persone, il Massimo pieno come un uovo. Il sassofonista contralto, che comandava tutto, disse: “Hey men! Tonight we have to play”. E il Duca omaggiò quel pubblico. Pazzesco: finito il concerto con la band, due ore, rimase al piano da solo, un’altra ora. Se ne parlò per anni».
C’era Polillo commosso.
«Si girò: “Sta facendo pezzi che non suona dal 1930!”».
Mancava solo il festival.
«Ero in banca, facevo il contabile. Mi telefona Diego De Sisto: socialista, colto, presidente dell’azienda di promozione: “Attraversa la strada, subito!”».
Il suo ufficio di fronte al suo.
«Mi disse: “L’anno prossimo facciamo il festival del Jazz a Pescara”».
E lei?
«Incredulo. Ma dove? Come? Il posto ce l’ho io. Le Naiadi! E i soldi li troviamo».
Era il 1969. Serviva un logo.
«Lo inventò il grande Gabriele Pomilio. Gli dico: “Però non ho soldi, quanto costa?”. E lui: “Puoi permettertelo di sicuro. Te lo do gratis”. Vinse un premio. E Umbria Jazz lo imitò».
Il primo anno.
«Bill Evans e Philly Joe Jones».
Bello.
«Al momento di iniziare non c’era il batterista di Joe».
Gente di Jazz.
«Dissi a Evans: “Comincia a suonare tu”. Ero sulle spine. Poi chiamò la polizia della stazione: “Qui ci sta nu negr che dice: “Jazz Jazz! Jazz! È roba vostra?”»
Mamma mia…
«Ricorda Mazzoletti? Lo chiamo: “Tu vieni a presentare”. Arrivano in tre, rideva: “Mi sono portato dietro la Rai”. Eravamo diventati un caso nazionale».
Anni bellissimi.
«Veniva chiunque. Era troppo bello. Ma finì con il 1977, con uno schianto».
Perché?
«Arrivò la rabbia degli autonomi. Occuparono il palco contestandoci: “La musica deve essere gratis”. Non ci fecero suonare. Settemila persone a casa».
Vi fermate per sei anni!
«Un trauma. E intanto il mio amico Carlo Pagnotta fondava Umbria Jazz ispirandosi a noi».
E cosa accadde?
«Noi facevamo tutto con trenta milioni. Lui trovò la fortuna con Perugina: gliene dava 300 a edizione!».
Lascia la banca.
«Fortuna. A 56 anni mi mandano in pensione e mi danno pure 20 milioni di buonuscita! Mi dedico solo al festival».
Finché?
«La politica ti faceva ballare. E che succede? Poi mi mettono sopra un professore di solfeggio al conservatorio. Brav’uomo. Nulla sapeva di jazz».
Ed è il patatrac.
«Un giorno, per scherzo, gli proposi cinque jazzisti morti».
E lui?
«Gridò: “Bello! Ma riusciamo ad averli tutti?”. “Sicuro”, risposi. Gli altri consiglieri scoppiarono a ridere. L’assessore Piero D’Andrea Matteo, 22mila voti, mi mandò via».
E lei?
«A novembre organizzo “Jazz in folle”. Con due nomi: Sony Rollings, Ornette Coleman. Sold out! Gente da tutto il mondo!»
E loro?
«Chiamarono Pagnotta: “Vieni?”. Lui - uomo serio - si rifiutò di sostituire un amico. Dopo due anni mi richiamarono».
Tutto tranquillo?
«Fino al 2016: un giorno, in una riunione con Giacomo Cuzzi. Socialista, figlio d’arte, lui dice: “Ma questo Festival estate Jazz… “Che cazz o’ facimm a fa’ lu’ Jazz? Non piace nemmeno a mia moglie!”».
E lei sbotta.
«Gli dico: “Ma che cazzo stai dicendo? Fai l’assessore e nemmeno sai come si chiama il tuo festival?”. Mi dimisi».
Però poi torna con l’Ente teatro e musica.
«Anni bellissimi...».
L’episodio cult?
«Dario Fo: venne l’anno dopo il Nobel. Per 84 milioni lui e Franca Rame, sette giorni a Pescara».
E gli altri?
«Scettici. Fecero sold out tutti e due, tutte le sere».
Momento più bello?
«La conferenza stampa: Dario parlò per due ore di tutto lo scibile umano».
Come mai a lei?
«Sono cresciuto nella musica, che ho amato tutta. E poi mi sono preso una cotta per il jazz».
A che punto?
«Ho un disco per calmarmi, uno per riposare…»
E oggi?
«Io, che non sogno mai, l’altra notte ho sognato di andare in cielo: c’era Tesdy Wilson, il pianista di Benny Goodman, con tutti i nostri ospiti di una vita».
E che dicevano?
«“È arrivato Lucio da Pescara!”. E mi festeggiavano».
E che vuoi di più? Sarà una premonizione.
«Non ho paura della morte ma di una cosa peggiore di cui di solito non si preoccupa nessuno».
Quale?
«Io penso e mi chiedo: ma siamo sicuri che… di là c’è la musica? Perché, se non ci fosse, meglio l’inferno».
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