Emilio D’Alessandro, parla l’assistente personale di Kubrick: «Si fidava solo di me»

L’ex autista del regista americano sarà ospite stasera al Fla: «Per lui recitai. Mi calmò quando litigai con Nicholson»
PESCARA. Da Cassino, dove è nato nel 1941, al set di Eyes wide shut, per l’ultima volta al fianco dell’amico di una vita: Stanley Kubrick. Quella di Emilio D’Alessandro è una vita che vale la pena raccontare. Ne è convinto anche lui, che dopo quasi mezzo secolo all’estero è tornato in Italia e incontra su e giù per lo stivale i fan del maestro newyorkese per cui è stato autista, assistente personale, confidente per trent’anni. Emozioni, ricordi, aneddoti. Li racconterà anche a Pescara, stasera alle 21 nel museo Cascella, ospite del cartellone del Fla - Festival di Libri e Altrecose, nello spazio dedicato al mondo del cinema - la sezione Cult che ieri sera ha portato sullo schermo del teatro Massimo Parenti serpenti di Mario Monicelli con gli attori Carmine Amoroso, Cinzia Leone, Eleonora Alberti e Tommaso Bianco presenti in sala - con Gisella Orsini e Giacomo Cecchinelli a moderare l’incontro. Ma questi trent’anni fra set e scarrozzate in auto, Emilio li anche raccontati in un bel libro, Stanley Kubrick e me (Il Saggiatore) e nel documentario in cui Alex Infascelli lo ha diretto, S is for Stanley - Trent’anni al volante per Stanley Kubrick.
D’Alessandro, cosa sa su Kubrick che gli altri non sanno?
«Che era un uomo semplice, molto più calmo di quanto non si pensi».
Quei capelli scompigliati fanno pensare ad altro.
«Si presentò a me con i lacci sciolti alle scarpe, una giacchetta casual. Pensai fosse un giardiniere. Era il nostro primo incontro. Vuole sentirlo?».
Certo.
«Ero nella hall di un hotel a Londra, avevo appuntamento con lui perché voleva conoscermi. Era il 1970».
È sicuro che non fosse lei a voler conoscere Kubrick?
«Non sapevo nemmeno chi fosse! Per me era uno a cui avevo fatto una cortesia».
Quale?
«Durante le riprese di Arancia Meccanica Londra era paralizzata dalla neve, c’erano le strade gelate. Io lavoravo per un’agenzia come autista privato. Arriva una telefonata».
Kubrick?
«La sua assistente di produzione. Serviva urgentemente un autista libero per consegnare del materiale sul set, ma nessuno voleva lavorare con quel tempaccio. La mia agenzia ci ha pensato: “Forse abbiamo qualcuno”, e ha mandato me».
Non ha avuto paura?
«Scherza? Per me guidare era una sciocchezza, e poi era lavoro. Mi feci il viaggio, portai quelle due o tre cose che servivano. Me ne andai».
E poi?
«Finite le riprese, Kubrick volle sapere chi era il matto che gli aveva salvato la giornata sul set con Londra sommersa dalla neve. Chiamarono la mia agenzia, loro chiamarono me: “Stanley Kubrick vuole vederti”. E fissammo un appuntamento: il giorno dopo nella hall di un grande hotel».
Ma lei lo scambia per un giardiniere.
«Si figuri, io mi ero messo un completo elegante. Lui si è presentato con non so quanti cani al seguito, trasandato. Mi disse: “Piacere, Stanley Kubrick”. E poi: “Non mettere la cravatta. Non siamo star, vestiti come me”. Mi fece sorridere».
Perché volle vederla?
«Per ringraziarmi, per vedere chi ero. Parlammo un po’ e mi salutò dicendo: “Ci vediamo domani”».
Ma lei era ancora un autista privato per un’agenzia londinese.
«Stanley volle quasi da subito un rapporto esclusivo. Mi chiamò come autista qualche volta, poi una sua segretaria mi offrì di lavorare stabilmente per lui. Io avevo paura di lasciare il vecchio lavoro, loro mi dissero: “Non pensarci, ci occupiamo noi di tutto”. Ho iniziato da lì».
Autista e poi assistente a tutto tondo. Per trent’anni.
«Stanley aveva una fiducia cieca nei miei confronti. Pensi che ero l’unico che poteva entrare nel suo ufficio, nel suo appartamento. Io gli dicevo: “Stanley, se mi succede qualcosa, chi mi sostituisce?”. E lui: “Nessuno!”».
Ma che faceva nel suo ufficio, nel suo appartamento?
«Qualsiasi cosa servisse. Il mio compito era non far mancare mai nulla a lui e ai suoi amici, che lui amava moltissimo. Ecco un’altra cosa che mi colpì di Stanley: la generosità».
E con lei era amico o c’era solo un rapporto di lavoro?
«No, io e Stanley ci siamo voluti bene. Ha celebrato con noi la comunione di mio figlio, è stato ospite in casa molte volte. È stato un secondo padre, per me».
Qualche ramanzina?
«Si innervosì quando scoprì che non sapevo cucinare. Lui conosceva Mario Maldesi, che doppiava i suoi film in Italia. Era innamorato della nostra cucina e Maldesi gli preparava dei gran piatti. Io non ci sapevo mettere mano. Lui diceva: “È assurdo, sei l’unico italiano che non sa cucinare”».
Adesso ha imparato?
«Mi dispiace, sono ancora negato (ride, ndr)».
Ma la simpatia di Kubrick nei suoi confronti era allora per le sue origini?
«No, a Stanley piacevano le persone pratiche e credo che lo abbia convinto questo. Lui detestava le perdite di tempo, le chiacchiere a vuoto».
Sul set con le stelle del cinema ci vuole concretezza.
«E infatti qualche volta Stanley mi ha usato… come buttafuori (ride, ndr)».
Sul set di Shining ha scarrozzato anche Nicholson.
«Solo una volta ed è stata pessima. Lui è un grande attore ma all’epoca fu davvero ingestibile, non sopportavo il suo modo di fare. Lo portai a casa e tornai da Stanley. Dissi: “Se porto un’altra volta Jack in auto, mi licenzio”. Stanley mi calmò e per Nicholson fu scelto un altro autista».
Incontri positivi?
«Tra i tanti, Tom Cruise mi stupì per la gentilezza. Un uomo d’altri tempi, garbato».
Lo ha conosciuto sul set di Eyes wide shut, dove lei ha avuto una particina.
«Sì, è buffo. Ogni tanto mi capitava di fare da modello per dei provini delle riprese che Stanley aveva in mente, ma niente più di questo. Poi un giorno mi fermò, era in imbarazzo».
Perché?
«C’era questo diner sotto quella che era stata la casa dei suoi genitori. Si chiamava “Cafè da Emilio”. Lui mi disse: “Giro lì una scena, vuoi fare una particina? Senza battute, una cosa facile”. E accettai, ero una comparsa in quel cafè».
Fu l’ultimo film di Kubrick.
«Morì e per me fu un dolore terribile. No, è ancora un dolore tremendo…».
Parlarne in questi anni l’ha aiutata?
«Sì. Ma avevo promesso che dopo la sua scomparsa non avrei fatto l’assistente per nessun altro».
Perché?
«Un po’ per attaccamento a una persona che mi ha dato tanto, a cui ho voluto molto bene. E poi perché all’epoca tutti volevano conoscerne i segreti personali e io volevo rispettare il suo ricordo».
Ha superato un po’ il dolore?
«Ho lavorato molto anche con un medico, per vivere meglio il mio rapporto con questo pensiero, per accettare la sua scomparsa. Oggi per me è un orgoglio essere qui a raccontare le immagini di trent’anni passati insieme».
Se chiude gli occhi, qual è la prima immagine che vede?
«Mi fa male dirlo, ma ho in testa il momento in cui ho gettato un pugno di sabbia sulla sua bara».
Ha scelto l’immagine più cupa.
«Sa, qui in Italia ho già un posto per quando Dio mi chiamerà a sé. E l’unica cosa che desidero è rivedere Stanley».
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