Famiglia nel bosco, Guida (Stripes): «Dovevano passare le feste con i genitori»

Parla la direttrice di una delle più grandi coop d’Italia che si occupa di pedagogia: «Psicologi, giudici e pedagogisti hanno la competenza del dialogo. Si sta facendo brutta figura»
L’AQUILA. «A Natale i bimbi devono stare a casa». Ma non sarà così. Dafne Guida, direttrice e presidente di Stripes, cooperativa sociale che si occupa di pedagogia e servizi educativi con 700 dipendenti all’attivo, ha dalla sua un’esperienza pluriennale come pedagogista. Di casi, più o meno similari, ne ha seguiti tanti. Sopra la legge, sopra gli adulti, sopra ogni cosa ci sono i bambini, dice. Teme per i fratellini del bosco di Palmoli, per le conseguenze psicologiche che, nel tempo, potrebbero manifestarsi e lasciare segni e cicatrici.
Dottoressa, è possibile che, nel 2025, si possa decidere di vivere in un bosco con dei figli piccoli?
«Nel 2025 si può fare tutto, anche quello. Ma ciò che bisogna garantire ai bambini – che non sono nostri ma figli del mondo e della vita stessa – è che quando si prende una decisione di questo tipo, lecita per carità, i bambini devono essere tutelati, educati, protetti e soprattutto sostenuti nei loro normali compiti di socializzazione».
È così per i bimbi nel bosco?
«Qui si apre una grande questione. La scelta è stata fatta non considerando tutti gli aspetti di tutela: sappiamo che la bimba maggiore non sa scrivere, che ci sono comportamenti pregiudizievoli sull'igiene. Nel dialogo soggettivo tra famiglia e Stato non bisogna polarizzare, ma integrare e cercare di sviluppare un approccio dialogico che consente di comprendere e fare ciò che è giusto per i bambini».
Un invito al dialogo?
«È tutto lì. Non deve essere per forza un sì o un no, andrebbe utilizzato un approccio di integrazione tra sistemi. Bene la scelta, ma con queste cautele: è il modo migliore per rispettare l’autonomia di questa famiglia e garantire i diritti dei minori evitando polarizzazioni e giudizi precostituiti».
La sua posizione?
«Apertura al confronto rispettoso. I genitori hanno fatto delle aperture, negli ultimi tempi, e bisogna inserirsi in quell’ambito, del dialogo, dell’integrazione».
A questa famiglia si contestano, soprattutto, carenze igieniche e mancanza di socialità. Che ne pensa?
«Dal punto di vista della crescita e dell’armonia dei bambini quello che mi preoccupa di più è il limite alla socializzazione, il fatto che non entrano in un mondo che è questo, ci piaccia o no. Gli strumenti per affrontarlo devono averli: quando un bimbo non è abituato a delle regole, rischia di sentirsi onnipotente e pensare che tutto quello che desidera può ottenerlo. Sarebbe meglio educare i bambini al confronto, anche con i coetanei. Questo, forse, è lo sforzo che devono fare i genitori dei tre piccoli. C’è un mondo oltre il bosco».
Che intende? Quando questi bambini cresceranno?
«Sì ed entreranno a contatto con la società, il vero rischio è questo. Di fatto i bimbi non imparano a relazionarsi con l’altro: i fratelli non sono un altro. Le regole della convivenza implicano che si entri in contatto con chi non fa parte del tuo nucleo familiare stretto, della tua sfera affettiva. L’incontro con l’altro rappresenta anche un rischio sociale, in tutti i sensi. È questo il tallone di Achille, il rischio che i tre bambini possano sviluppare, un domani, problematiche importanti dal vista neuropsichiatrico».
È d’accordo con la decisione di allontanare i minori e non farli tornare a casa per Natale?
«Non avrei utilizzato una modalità così netta, avrei iniziato a dialogare prima. Lo Stato deve intervenire quando la famiglia non ce la fa o non basta, ma se c’è una sola possibilità al dialogo, prima di portare via dei bambini bisogna battere questa strada. Qualcosa si è interrotto nella comunicazione tra adulti. A Natale i bimbi dovevano stare a casa».
Teme traumi psicologici per i bambini?
«Finora, probabilmente, ancora no, perché sono stati allontanati con una presenza quotidiana, seppure non costante, della mamma. Ma non dobbiamo esagerare perché la mente dei bambini è plastica. Forse si stanno ancora interrogando sul perché sono stati portati via da casa. Queste cose vanno metabolizzare, qualcuno dovrà prendersi la briga di riprendere questo filo del discorso e riallacciarlo».
E il fatto che i bimbi non frequentassero fisicamente la scuola?
«Francamente non credo che possa costituire un problema. Ormai c’è l’idea di educazione diffusa, che non contempla sempre l’aula didattica».
La pressione mediatica è fortissima, un errore?
«Un elemento negativo. Ma se tutta questa vicenda giudiziaria diventasse un’occasione educativa, allora forse non avremmo perso tempo e costruito dinamiche pericolose».
Per i bimbi si è mosso persino il ministro Salvini.
«Neppure lui può nulla, anche se credo che non debba essere il ministro a muoversi. Esistono servizi quotati in Italia che devono essere lasciati liberi di esprimere i loro punti di vista rispetto alla raccolta dei dati. Quei bimbi oggi vivono una condizione di fragilità che non può essere protratta a lunga o rischia di lasciare segni indelebili. Misure radicali rischiano di strappare vite, non proteggerle».
Si riferisce all’allontanamento?
«Sono per un approccio di integrazione tra sistemi: la scuola e la famiglia, da sole, non fanno niente. È l’integrazione tra i due sistemi a fare la differenza».
A suo avviso la legge sull’allontanamento dei minori andrebbe cambiata?
«Chi sta millantando certezze non sta sfruttando la capacità di dialogo competente. Psicologi, giudici e pedagogisti hanno la competenza del dialogo, ma devono utilizzarla per non commettere errori. È per questo che, sulla vicenda dei bimbi di Palmoli, si sta facendo una brutta figura».
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