Gli aquilani rianimano la città morente

Il ritorno in centro alla ricerca dei luoghi autentici della comunità dispersa il 6 aprile. Il Corso invaso da migliaia di persone, gente normale che non vuole arrendersi al degrado e alla devastazione
L'AQUILA. L’AQUILA. Le ore della domenica mattina, nella vita che fu, erano il momento della passeggiata. Rigorosamente in macchina. Andavo coi miei figli a fare un giro per i paesi del circondario, passando per stradine sterrate e vicoli dove il sole non ci arriva mai. La “passeggiata” finiva in via XX Settembre, davanti alla redazione del Centro. Il lavoro poteva iniziare. Era come se, percorrendo strade piccole e grandi, avessi fatto una sorta di ricognizione: mi ero reso conto che era tutto a posto.
Vedevo le case con le finestre semiaperte, la gente che usciva un po’ pigramente per andare a messa, in pasticceria, al più vicino negozio di pasta all’uovo o in edicola a comprare il giornale. Prima di pranzo una puntatina al bar per l’aperitivo, due passi in piazza beandosi del Gran Sasso innevato o dei boschi lussureggianti.
Ieri mattina sono uscito di casa sul presto. L’appuntamento con la “rivolta delle carriole” era fissata per le 10. Prima di andare all’Aquila ho provato a rifare, tristemente solo, quella passeggiata. In giro poche persone. Ho visto case inanimate e ferite. Da alcune facciate è come se si fosse staccata la pelle finita poi a terra in mille pezzi che nessuno ha raccolto. Nei vicoli chiusi il sole ha rinunciato anche a bussare. A Bazzano, davanti agli enormi palazzi del progetto Case ho sentito lo sconcerto di una vita provvisoria che ha cercato un caldo rifugio ma che scalpita per tornare nei luoghi da dove è fuggita il sei aprile. Facendo quel percorso ho intuito che cosa spinge oggi gli aquilani a chiedere a gran voce l’avvio della ricostruzione, quella vera.
Tutto ciò che è stato costruito fino ad oggi, dalle casette di legno agli appartamenti del Case, forse avevano illuso molti che presto i problemi sarebbero finiti, che L’Aquila stava rinascendo nelle new town costruite in pochi mesi. Ho letto su qualche blog frasi che danno l’idea di come oggi viene vista L’Aquila fuori dall’Aquila: «Ma che cosa vogliono questi aquilani, hanno una nuova casa e si lamentano». E’ questo il problema: gli aquilani non vogliono semplicemente una nuova casa, rivogliono la loro città. Ma la loro città oggi non c’è e sta morendo non più sotto i colpi del terremoto ma nell’incuria e nella desolazione.
Parcheggio la mia nuova macchina alla villa comunale stando attento a non metterla a fianco a un edificio. Il sei aprile la mia vecchia auto è finita schiacciata sotto il peso di due blocchi di cemento: era sotto casa.
Da via XX Settembre non arriva nessuno, la strada è stata chiusa di nuovo, ora - mi dicono - c’è un costone che rischia di scivolare verso il basso.
Salgo lungo corso Federico II, davanti al Grand Hotel ci sono due militari che sono a guardia di un fantasma: L’Aquila. Dopo un po’ sento delle voci dietro di me. Saluto Berardino Persichetti, per 40 anni medico pediatra in ospedale. E’ ancora in un albergo sulla costa: «La mia casa è B - quindi riparabile - ma continuo a girare come una trottola e nessuno mi sa dare risposte; anche se volessi far fare i lavori di ristrutturazione la burocrazia blocca tutto e non so quando potrò cominciare». Quelli che parlano guardando la tv non sanno, per esempio, che non tutti gli aquilani hanno avuto una casetta di legno o un alloggio del progetto Case. Sono ancora migliaia quelli che sono lontani decine se non centinaia di chilometri dalle abitazioni A-B-C i quali non solo non hanno diritto a un tetto tutto nuovo ma non riescono a riparare nemmeno il loro, di tetto.
Con Persichetti c’è Pina Lauria animatrice di uno dei tanti comitati cittadini. Ha con sé una busta. Dentro ci sono dei copricapo fatti di carta: quelli dei muratori. Ed è di muratori che oggi la città avrebbe tanto bisogno. In piazza Duomo, poco dopo le 9 ci sono già Patrizia Tocci ed Eugenio Carlomagno, compagni nella vita e oggi uniti più che mai dalla rabbia per una città che dal letto di morte grida aiuto. Sulla loro macchina c’è una carriola, da una borsa spuntano i moduli per raccogliere le firme da inviare al presidente del consiglio. Carlomagno dal megafono urla: «Berlusconi, hai costruito case nuove in tre mesi, ora prova a rifare L’Aquila in tre anni». Ma la petizione serve anche a chiedere maggiore concretezza, cioè soldi veri. «Solo con una tassa di scopo» insiste Carlomagno «sarà possibile trovare i fondi per la ricostruzione, tutto il resto sono solo parole al vento».
In piazza arriva Totò Di Giandomenico con una pala sulle spalle. Poi c’è Giusy Pitari, pro rettore dell’Università, con una “callarella” (il secchio dei muratori) in mano. Incontro Mario Badia, assessore comunale negli anni Ottanta del secolo scorso che mi dice: «Attenzione a quelli che vorrebbero portarci via il capoluogo».
La giornata man mano si anima. Vedo intere famiglie con bimbi al seguito, signore attempate che hanno scoperto uno spirito battagliero, tante facce di aquilani che non hanno nessuna voglia di fare la rivoluzione ma solo di “riconquistare” la loro città. E’ questa gente “normale” che oggi chiede di tornare a casa, quella vera.
Poco prima delle 11 piazza Duomo, quella praticabile, si riempie. Ci si organizza per il blitz in piazza Palazzo. Si perché in una città che ormai è un ghetto per le macerie e gli animali selvatici, anche manifestare è difficile: bisogna indossare il casco, farsi registrare, mostrare un documento. Ma è facile immaginare che la marcia della carriole non si fermerà davanti a un cancello pur ben vigilato dalla polizia. In piazza Palazzo dovevano entrare 50 persone al massimo, alla fine ne erano più di trecento, le altre 5000 sono rimaste fuori ma anche il loro cuore era oltre l’ostacolo. Le forze dell’ordine hanno provato a bloccare quella marea umana, poi hanno lasciato fare. Meglio così. Quando le carriole sono tornate indietro due ali di folla le hanno scortate fino a un deposito provvisorio.
Ho guardato il Corso, dai Quattro Cantoni a Piazza Duomo: pieno di gente. Non succedeva dal 5 aprile. Negli occhi di molti ho visto non solo la rabbia ma anche il piacere di tornare a passeggiare nel cuore della propria città per godere di nuovo dei luoghi, quelli che la storia ha consegnato agli aquilani di oggi, e che bisognerà riconsegnare agli aquilani di domani. Ma non c’è più tempo da perdere.
Vedevo le case con le finestre semiaperte, la gente che usciva un po’ pigramente per andare a messa, in pasticceria, al più vicino negozio di pasta all’uovo o in edicola a comprare il giornale. Prima di pranzo una puntatina al bar per l’aperitivo, due passi in piazza beandosi del Gran Sasso innevato o dei boschi lussureggianti.
Ieri mattina sono uscito di casa sul presto. L’appuntamento con la “rivolta delle carriole” era fissata per le 10. Prima di andare all’Aquila ho provato a rifare, tristemente solo, quella passeggiata. In giro poche persone. Ho visto case inanimate e ferite. Da alcune facciate è come se si fosse staccata la pelle finita poi a terra in mille pezzi che nessuno ha raccolto. Nei vicoli chiusi il sole ha rinunciato anche a bussare. A Bazzano, davanti agli enormi palazzi del progetto Case ho sentito lo sconcerto di una vita provvisoria che ha cercato un caldo rifugio ma che scalpita per tornare nei luoghi da dove è fuggita il sei aprile. Facendo quel percorso ho intuito che cosa spinge oggi gli aquilani a chiedere a gran voce l’avvio della ricostruzione, quella vera.
Tutto ciò che è stato costruito fino ad oggi, dalle casette di legno agli appartamenti del Case, forse avevano illuso molti che presto i problemi sarebbero finiti, che L’Aquila stava rinascendo nelle new town costruite in pochi mesi. Ho letto su qualche blog frasi che danno l’idea di come oggi viene vista L’Aquila fuori dall’Aquila: «Ma che cosa vogliono questi aquilani, hanno una nuova casa e si lamentano». E’ questo il problema: gli aquilani non vogliono semplicemente una nuova casa, rivogliono la loro città. Ma la loro città oggi non c’è e sta morendo non più sotto i colpi del terremoto ma nell’incuria e nella desolazione.
Parcheggio la mia nuova macchina alla villa comunale stando attento a non metterla a fianco a un edificio. Il sei aprile la mia vecchia auto è finita schiacciata sotto il peso di due blocchi di cemento: era sotto casa.
Da via XX Settembre non arriva nessuno, la strada è stata chiusa di nuovo, ora - mi dicono - c’è un costone che rischia di scivolare verso il basso.
Salgo lungo corso Federico II, davanti al Grand Hotel ci sono due militari che sono a guardia di un fantasma: L’Aquila. Dopo un po’ sento delle voci dietro di me. Saluto Berardino Persichetti, per 40 anni medico pediatra in ospedale. E’ ancora in un albergo sulla costa: «La mia casa è B - quindi riparabile - ma continuo a girare come una trottola e nessuno mi sa dare risposte; anche se volessi far fare i lavori di ristrutturazione la burocrazia blocca tutto e non so quando potrò cominciare». Quelli che parlano guardando la tv non sanno, per esempio, che non tutti gli aquilani hanno avuto una casetta di legno o un alloggio del progetto Case. Sono ancora migliaia quelli che sono lontani decine se non centinaia di chilometri dalle abitazioni A-B-C i quali non solo non hanno diritto a un tetto tutto nuovo ma non riescono a riparare nemmeno il loro, di tetto.
Con Persichetti c’è Pina Lauria animatrice di uno dei tanti comitati cittadini. Ha con sé una busta. Dentro ci sono dei copricapo fatti di carta: quelli dei muratori. Ed è di muratori che oggi la città avrebbe tanto bisogno. In piazza Duomo, poco dopo le 9 ci sono già Patrizia Tocci ed Eugenio Carlomagno, compagni nella vita e oggi uniti più che mai dalla rabbia per una città che dal letto di morte grida aiuto. Sulla loro macchina c’è una carriola, da una borsa spuntano i moduli per raccogliere le firme da inviare al presidente del consiglio. Carlomagno dal megafono urla: «Berlusconi, hai costruito case nuove in tre mesi, ora prova a rifare L’Aquila in tre anni». Ma la petizione serve anche a chiedere maggiore concretezza, cioè soldi veri. «Solo con una tassa di scopo» insiste Carlomagno «sarà possibile trovare i fondi per la ricostruzione, tutto il resto sono solo parole al vento».
In piazza arriva Totò Di Giandomenico con una pala sulle spalle. Poi c’è Giusy Pitari, pro rettore dell’Università, con una “callarella” (il secchio dei muratori) in mano. Incontro Mario Badia, assessore comunale negli anni Ottanta del secolo scorso che mi dice: «Attenzione a quelli che vorrebbero portarci via il capoluogo».
La giornata man mano si anima. Vedo intere famiglie con bimbi al seguito, signore attempate che hanno scoperto uno spirito battagliero, tante facce di aquilani che non hanno nessuna voglia di fare la rivoluzione ma solo di “riconquistare” la loro città. E’ questa gente “normale” che oggi chiede di tornare a casa, quella vera.
Poco prima delle 11 piazza Duomo, quella praticabile, si riempie. Ci si organizza per il blitz in piazza Palazzo. Si perché in una città che ormai è un ghetto per le macerie e gli animali selvatici, anche manifestare è difficile: bisogna indossare il casco, farsi registrare, mostrare un documento. Ma è facile immaginare che la marcia della carriole non si fermerà davanti a un cancello pur ben vigilato dalla polizia. In piazza Palazzo dovevano entrare 50 persone al massimo, alla fine ne erano più di trecento, le altre 5000 sono rimaste fuori ma anche il loro cuore era oltre l’ostacolo. Le forze dell’ordine hanno provato a bloccare quella marea umana, poi hanno lasciato fare. Meglio così. Quando le carriole sono tornate indietro due ali di folla le hanno scortate fino a un deposito provvisorio.
Ho guardato il Corso, dai Quattro Cantoni a Piazza Duomo: pieno di gente. Non succedeva dal 5 aprile. Negli occhi di molti ho visto non solo la rabbia ma anche il piacere di tornare a passeggiare nel cuore della propria città per godere di nuovo dei luoghi, quelli che la storia ha consegnato agli aquilani di oggi, e che bisognerà riconsegnare agli aquilani di domani. Ma non c’è più tempo da perdere.