L’intervista al maestro del sostegno che costruisce ponti: «Nessuno resti indietro»

15 Dicembre 2025

Scataglini, il prof della “Alighieri” dell’Aquila, ha superato il milione di copie vendute con i libri per bimbi: «A scuola come nel rugby: la squadra che avanza lo deve fare insieme»

L’AQUILA. C’è un filo sottile che unisce la voce calma di un insegnante di sostegno al ritmo spesso caotico della scuola. Carlo Scataglini quel filo lo conosce bene: lo intreccia da quasi quarant’anni, seduto accanto a chi ha più bisogno, con uno sguardo capace di vedere possibilità dove altri vedono ostacoli. Oggi quel lavoro silenzioso e ostinato prosegue nelle aule della “Dante Alighieri” dell’Aquila e raggiunge un traguardo che emoziona: un milione di copie vendute in Italia e all’estero. Autore di oltre cento titoli per Erickson, dalle versioni facilitate dei classici ai racconti per bambini tradotti anche fuori dai confini nazionali, Scataglini è diventato una voce autorevole della didattica inclusiva. Un faro per genitori e docenti. Eppure continua a presentarsi così: un prof che ascolta, osserva, che ogni mattina costruisce ponti perché nessuno resti indietro. Il suo libro più amato, Il sostegno è un caos calmo, è il diario di un mestiere vissuto con passione e misura, un piccolo manifesto che racconta la fragilità, il coraggio e la bellezza di chi sceglie di esserci. Ma soprattutto di restare.

Professore ha superato il milione di copie vendute: che significato ha per lei questo traguardo?

«È ovviamente una grande soddisfazione che condivido con la Casa Editrice Erickson di Trento che mi ha dato fiducia e la possibilità di lavorare insieme a professionisti preparatissimi, con i quali c’è stato un continuo gioco di squadra. Soddisfazione poi nel vedere che i nostri sussidi didattici hanno funzionato bene e sono diventati strumenti validi per tutta la classe e non solo per alunni e alunne con difficoltà di apprendimento».

Da dove nasce il suo impegno nella didattica inclusiva e il suo rapporto così forte con la scuola?

«Nasce e cresce anno dopo anno, in classe, lavorando gomito a gomito con i colleghi e affrontando situazioni sempre diverse. Forse è proprio questo il bello del mestiere dell’insegnante, senza distinzioni tra insegnanti disciplinari e di sostegno, vivere situazioni sempre nuove e cercare di fare il meglio per i nostri bambini e i nostri ragazzi. In quaranta anni di insegnamento ho fatto tante esperienze, ho imparato tanto e soprattutto ho incontrato ragazzi meravigliosi».

Lei descrive il mondo del sostegno come un “caos calmo”, disordinato e lento, in cui nulla è mai uguale due volte. Una definizione affascinante per raccontare un mestiere che molti insegnanti vivono come una parentesi, mentre lei lo ha scelto come professione per la vita. Che cosa la spinge?

«Rispetto chi, dopo un certo numero di anni di sostegno, passa a insegnare la propria disciplina. Anzi ritengo che sicuramente l’esperienza del sostegno lo renderà un insegnante migliore. Io, come molti altri colleghi, non ho fatto questo passaggio. Amo il lavoro che faccio, trovo grande soddisfazione quando, insieme ai colleghi di classe, riesco a dare il mio contributo per favorire l’inclusione di tutti nella classe. Amo il rapporto che si crea in classe, l’empatia, l’affetto. Poi mi piace molto lavorare sulla facilitazione dei materiali didattici e sui libri di testo per renderli fruibili per tutti».

Nel suo libro emergono anche le difficoltà che si incontrano entrando ogni anno in una nuova classe: diciamolo, l’insegnante di sostegno spesso non ha la cattedra, a volte neppure una sedia, e spera che un alunno assente lasci posto. Come affronta il primo giorno di scuola?

«E come costruisce, con docenti e studenti, quella collaborazione e quel lavoro di gruppo indispensabili per sostenere l’alunno più fragile? Non sempre è tutto facile, ovviamente. La figura dell’insegnante di sostegno, per funzionare ed essere utile, deve trovare una collocazione operativa e didattica. Si tratta di un docente della classe, non rivolto ad un solo alunno con disabilità. È essenziale riuscire a collaborare con i colleghi, dare il proprio contributo. Per far questo è chiaramente utile impostare alcune attività in classe in modo laboratoriale, interattivo, cooperativo. La lezione frontale, come unica modalità di insegnamento, rende difficili le collaborazioni e, secondo me, ha meno presa e coinvolge di meno gli studenti. Gli studenti vanno coinvolti attivamente, in maniera dinamica e situazionale, in base alle esigenze che emergono nel corso dell’anno scolastico. In questo modo la presenza di due insegnanti in classe diventa necessaria e funzionale. E l’insegnante di sostegno riesce a dare il proprio contributo in maniera più naturale ed efficiente».

Nel mondo del sostegno, diversamente dalla didattica tradizionale, il metodo va costruito ogni giorno e cucito sulla personalità di ciascun ragazzo. Oltre a competenze ed esperienza, servono una grande dose di pazienza ed empatia. Secondo lei, tutti gli insegnanti possono farlo?

«È necessario avere quello sguardo sottile che permette di comprendere cosa serve veramente ai nostri ragazzi, con la consapevolezza che ciascuno di loro è diverso dagli altri. Serve una grande motivazione e la capacità di mettersi in gioco ogni volta. Serve preparazione e professionalità e, nello stesso tempo, empatia e sensibilità. Serve sorridere in classe, quello del sorriso è un aspetto che gli alunni apprezzano molto. Serve pazienza, senz’altro, nel non dare mai niente per scontato e, a volte, ripartire da capo e calibrare meglio il proprio intervento. Servono tutte queste cose».

Non è un lavoro per tutti quindi?

«È per tutti coloro che sono molto motivati e amano questo lavoro».

Scataglini sogna una scuola diversa, che un dodicenne non tema ma riesca ad amare. Una scuola in cui basterebbe sorridere, valorizzare ciò che gli alunni fanno bene, sostituire le note di demerito con quelle di merito.

Quanto cambierebbe, secondo lei, se sull’App del registro elettronico arrivassero messaggi come: “Oggi Andrea ha aiutato la sua compagna di banco durante l’ora di matematica”?

«È proprio questo l’obiettivo. La scuola dell’inclusione è una scuola che valorizza e non colpevolizza. Che stimola e fa stare bene le persone, alunni e docenti. Negli anni la scuola è migliorata molto in questo senso. C’è una maggiore sensibilità per questi temi e per il benessere dei ragazzi. C’è maggiore attenzione. Si è superata quella concezione di scuola immutabile e rigida alla quale sono gli studenti a doversi in qualche modo adattare. Il concetto stesso di inclusione prevede invece l’adattamento del contesto-scuola, oltre che della didattica e dei materiali di studio, alle esigenze degli alunni, per includere tutti senza esclusioni».

In ogni suo pensiero ricorre il tema del sostegno: non solo dei più fragili, ma dei ragazzi in generale. Lei sembra avere la capacità di vedere le cose dal loro punto di vista. È perché sceglie di sedersi accanto a loro e non in cattedra?

«Il sostegno è un concetto trasversale. Nel rugby (sono stato un giocatore di rugby) il sostegno è un principio base, la prima cosa che ti insegnano. Quando la squadra avanza lo fa insieme e ogni giocatore ha un compagno vicino a cui cedere la palla se viene bloccato. Nessuno scappa in avanti lasciando indietro tutti gli altri. È così che immagino il sostegno scolastico, come un gioco di squadra tra docenti e alunni. La classe è un gruppo che, unito, può fare grandi cose».

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