Messa in sicurezza traforo del Gran Sasso, Caputi: «Obiettivo 2028, questa è l’opera dei sogni»

Il commissario unico fissa le tappe dell’operazione: «Vogliamo ridurre i disagi. Il progetto complessivo può valere fino a 650 milioni, prevediamo di averlo entro fine anno»
L’AQUILA. La data è segnata in rosso: 2028. Se i pareri ambientali e tecnici convergeranno, nelle gallerie del Gran Sasso si aprirà il cantiere unico per il maxi progetto di messa in sicurezza di questo sistema così unico (può arrivare a valere, complessivamente, 650 milioni di euro), con lavori scanditi da una regia statale e la promessa di disagi dimezzati per gli utenti, almeno sotto il profilo della loro durata. All’obiettivo lavora alacremente l’ingegnere Pierluigi Caputi, che da luglio è diventato commissario unico avendo ereditato da Marco Corsini anche le competenze relative ai lavori per la sicurezza stradale che si sono aggiunte a quelle sul bacino idrico. In questa lunga intervista al Centro Caputi individua priorità e percorsi, delinea strategia e rivela alcuni risvolti inediti. A partire da una particolare emozione: «Per me questa è l’opera dei sogni».
Ingegner Caputi, come si costruisce una partecipazione non “antagonista” a un processo del genere?
«Ho aperto la progettazione con un avviso pubblico: chi ha osservazioni le porti, come si fa a un matrimonio quando si chiede se qualcuno ha qualcosa da dire. Le proposte vengono valutate, non necessariamente condivise. La partecipazione, però, non può sostituire scienza e tecnologia: indica problemi e priorità, poi servono risposte tecniche».
Chi verifica?
«Le massime istituzioni dello Stato: Consiglio superiore dei lavori pubblici, Autorità di bacino, università (L’Aquila, Roma La Sapienza), strutture nazionali con competenze riconosciute. L’obiettivo è evitare opinioni personali non verificate: se un punto è controverso, lo giudica l’organo tecnico competente».
Il famoso protocollo d’intesa “Lolli” per fare interventi è sufficiente?
«È stato ed è uno strumento virtuoso, ma volontario. Se domani il gestore dicesse “non lo applico”, nessuno potrebbe imporglielo. Per questo ho proposto di integrare il protocollo con una norma di legge che affidi il giudizio finale a un organo tecnico dello Stato, con poteri cogenti».
Parliamo di acque: ci sono 80 litri al secondo circa che hanno un destino ancora incerto.
«Quelle acque sono tuttora sotto sequestro a seguito delle vicende giudiziarie. C’è chi spinge per utilizzarle, ma serve una cornice di sicurezza e responsabilità chiara».
La “verificazione” del professor Napolitano (La Sapienza) per il Tribunale superiore delle acque pubbliche cosa dice?
«Che quelle acque, così come stanno, non sono utilizzabili. È un lavoro molto accurato. Proprio per questo abbiamo avviato, tramite convenzioni con l’Università dell’Aquila e la Sapienza, la verifica di un’eventuale utilizzazione in emergenza a valle di potabilizzatori dedicati».
A che punto è l’iter per costruire i potabilizzatori?
«Campotosto è il cantiere più complesso: serve un anno pieno di analisi di qualità delle acque prima del progetto definitivo e della procedura ambientale. Ma l’anno è quasi finito, ci siamo. Siamo in dialogo con Soprintendenza, ringrazio la dottoressa Cristina Collettini, e Parco per minimizzare gli impatti. Lato Teramo la progettazione è avanzata e stiamo per avviare le procedure ambientali. Altri impianti sono più lineari e già in fase di parere. A Campotosto è emerso che parte dei reflui comunali finisce ancora in alveo. Le analisi oggi non mostrano criticità, ma con più pressione turistica il rischio crescerebbe. Abbiamo recuperato risorse ferme per cinque micro-depuratori, ma a mille metri gli impianti piccoli soffrono: reazioni biologiche instabili, costi gestionali altissimi. Stiamo studiando con l’autorità di bacino una razionalizzazione su uno o pochi impianti con portate maggiori, più affidabili e sostenibili. Devo ringraziare, per la collaborazione in questo ambito, il commissario Guido Castelli e Vincenzo Rivera, direttore dell’Ufficio speciale per la ricostruzione 2016».
L’unificazione dei due commissariati: cosa cambia?
«Una legge dello Stato ha unificato le strutture, perché le due procedure erano giuridicamente diverse e non si potevano “fondere” per via amministrativa. Ora sicurezza gallerie e sicurezza idrogeologica viaggiano insieme. Questo mi consente una progettazione unica: meno sovrapposizioni, meno opere provvisorie da rifare, risparmi stimabili nell’ordine di decine di milioni e, soprattutto, tempi più brevi».
Tempi di cantiere e traffico: scenario realistico?
«In galleria non è banale gestire il doppio senso durante i lavori per l’estrazione fumi unidirezionale. Stiamo studiando, con il progettista e con l’assenso di Ansfisa, una soluzione di ventilazione che dimezzi i periodi di marcia a senso unico alternato: da quattro anni a circa due. Ma deve essere validata dall’autorità tecnica».
Perché non la “terza canna”?
«È un’ipotesi storica, sostenuta anche da autorevoli progettisti. Ma rischia di intercettare nuova acqua e impattare le sorgenti in quota: il Parco non la autorizzerebbe. E, comunque, non eliminerebbe l’esigenza dei potabilizzatori né i problemi di traffico in corso d’opera. Inoltre i costi complessivi schizzerebbero ben oltre le stime attuali».
A proposito di costi: quanto servirà davvero?
«Oggi, a spanne, parliamo di 600-650 milioni per l’insieme degli interventi, includendo gli adeguamenti impiantistici pesanti (spegnimento, uscite di sicurezza, impianti elettrici, piazzole). Il numero vero lo darà il Pfte (Progetto di Fattibilità Tecnica ed Economica) e poi l’esecutivo».
Qual è il cronoprogramma di massima?
«L’obiettivo è il progetto unico completo entro fine anno per lanciare la gara principale nel 2028. Il Pfte lo vogliamo per metà 2027. La riduzione dei tempi dipenderà molto dall’approvazione della soluzione di ventilazione e dalla chiusura dei procedimenti ambientali».
Gli interventi dentro i Laboratori chi li fa e con quali soldi?
«Li faranno i Laboratori, a loro carico, su una strategia generale approvata e con progetti esecutivi per stralci, coordinati e verificati anche con Università e autorità tecniche. La forchetta stimata è di almeno dieci milioni. È la via più rispettosa della tutela alla ricerca: si interviene quando le camere sono libere dagli esperimenti».
Resta il nodo dei cosiddetti “rifiuti russi” sotto le gallerie.
«Sono residui speciali (idrocarburi pesanti) da un vecchio esperimento di oltre vent’anni fa. I Laboratori si erano impegnati a rimuoverli e avevano anche avviato la gara, ma la proprietà è straniera e il contesto internazionale ha bloccato l’esecuzione. Sto sollecitando, insieme al Ministero dell’Università e Ricerca, una soluzione istituzionale: è il tema ambientale più impattante e va chiuso».
Quali sono le priorità assolute?
«Beh, innanzitutto evitare il blocco dei lavori. Sarebbe la tempesta perfetta: stop immediato del cantiere, allungamento dei tempi di chiusura e, al contempo, necessità di garantire l’erogazione idrica ai cittadini. La prevenzione delle “sorprese” di galleria è per me priorità assoluta».
Chi è il progettista generale?
«Italferr, società interamente pubblica del gruppo Ferrovie dello Stato».
Lei ha accettato questo incarico, molto difficile, al culmine di una luminosa carriera. Perché?
«Sul piano personale è l’opera dei sogni di un ingegnere: emozionante e ansiogena insieme. Ogni porta che apri ne apre altre dieci. Mi vengono assicurati da più parti la conferma e l’apprezzamento per l’approccio tecnico, questa per me è la vera gratificazione».
©RIPRODUZIONE RISERVATA