Perruzza, tre condanne e tanti dubbi

In carcere per l'omicidio della nipote, morì professandosi innocente
BALSORANO. Oggi Cristina Capoccitti avrebbe 26 anni se quel 23 agosto 1990 la sua vita, come un fiore, non fosse stata recisa. Cristina aveva sei anni ed era bellissima. Tanto che a Case Castella, paese dove viveva, tutti la chiamavano «Biancaneve». La tragica morte della piccola ha scosso il paese e distrutto due famiglie: quella di Giuseppe Capoccitti, papà di Cristina, e quella del cognato Michele Perruzza, che, accusato dell'omicidio della nipotina e condannato all'ergastolo, morirà in carcere di crepacuore. Gridando fino all'ultimo la sua innocenza.
IL DELITTO. Cristina scompare la sera del 23. Il suo corpo viene scoperto la mattina dopo, in mezzo ai rovi, in un fossato, a circa 100 metri dal centro abitato. La piccola indossa solo una maglietta, gli altri vestiti sono sparsi qua e là nella vicina radura. A tre metri circa dal fossato c'è una vasta macchia di sangue. Poco distante, ai piedi di un muro di contenimento, viene trovata una grossa pietra macchiata di sangue.
LE INDAGINI. Vengono coordinate dal sostituto procuratore della Repubblica di Avezzano, Mario Pinelli. L'autore dell'omicidio, secondo gli inquirenti, andava cercato tra gli abitanti del borgo. Così tutti vengono interrogati. La sera del 26 agosto Michele Perruzza viene convocato alla caserma di Balsorano e ascoltato dal dottor Pinelli. Contemporaneamente, a Case Castella, il capo della Mobile dell'Aquila, Pasqualino Cerasoli, raccoglie la testimonianza della moglie di Perruzza, Maria Capoccitti. La versione dei due coniugi coincide. Raccontano di essere rientrati a casa, da un fabbricato in costruzione, verso le 21. Davanti al cancelletto dell'abitazione incontrano il figlio Mauro, che a sua volta stava rientrando. Cristina l'avevano vista per l'ultima volta verso le ore 20.15, allontanarsi con il figlio. Viene così convocato in caserma anche il ragazzo. Sono le 22.
L'AUTOACCUSA. Messo alle strette, Mauro confessa di avere ucciso lui la cugina. Alle 23,20 il dottor Pinelli annuncia che il caso è stato risolto. A uccidere Cristina sarebbe stato il cugino di 13 anni. A questo punto il ragazzo, che nel lasciare la caserma ha rischiato il linciaggio, è stato portato al Palazzo di giustizia di Avezzano, per essere interrogato dal procuratore del tribunale per i minorenni, Duilio Villante. Al magistrato Mauro conferma la versione resa al dottor Pinelli. Racconta in sostanza di essersi accompagnato con la cugina nel boschetto, dove questa poi è stata trovata uccisa, e qui avrebbe iniziato un gioco da adolescenti. La piccola, probabilmente spaventata, avrebbe cercato di fuggire, ma sarebbe incespicata, cadendo e battendo violentemente la testa su un sasso.
LA RITRATTAZIONE. Al momento della chiusura del verbale il colpo di scena. Improvvisamente il ragazzo ritratta e accusa dell'omicidio il padre. Racconta di avere visto, mentre era seduto in piazza, il padre avviarsi, tenendo per mano Cristina, verso il boschetto. Dopo un po', insospettito, li avrebbe seguiti e, appostandosi dietro una cabina dell'Enel, avrebbe visto il padre colpire in testa la nipotina con un masso. Come Mauro dall'autoaccusa sia passato all'accusa al padre, non si sa. La cassetta con la registrazione delle frasi del passaggio è misteriosamente sparita.
L'ARRESTO. All'alba del 27 agosto, comunque, Perruzza viene arrestato. Mentre il muratore viene portato in carcere, il dottor Pinelli, in una conferenza stampa, rivela che l'assassino di Cristina è lo zio.
I PROCESSI. In Corte d'assise dell'Aquila i legali di Perruzza, Leonardo Casciere e Domenico Buccini, adottano la linea difensiva cosiddetta della «terza via». L'autore dell'omicidio andava cercato fuori da casa Perruzza. Il giovane su cui i difensori avevano fatto gravare i sospetti, però, all'ora del delitto, stava giocando a calcetto a Ridotti. Perruzza viene così condannato all'ergastolo. La sentenza viene accolta con un applauso dagli abitanti di Case Castella presenti in aula. La sera in paese la condanna del muratore viene festeggiata con i fuochi d'artificio. L'ergastolo a Perruzza viene confermato in secondo grado e in Cassazione. Decisiva in Corte d'Assise d'appello è stata la testimonianza di Mauro.
Il ragazzo, cambiando ancora una volta versione sulla dinamica del delitto e sul punto di osservazione, racconta in aula di avere visto da un capanno il padre chino sulla cuginetta mentre la strozzava. I giudici però gli hanno creduto.
PROCESSO-SATELLITE. I legali di Perruzza, Attilio Cecchini e Antonio De Vita, però, non si danno per vinti. L'occasione per riprendere la battaglia viene offerta da un processo satellite a Sulmona, dove sono imputati Perruzza e la moglie. I due sono accusati di avere costretto il figlio Mauro ad autoincolparsi del delitto. Il tribunale, presieduto dal giudice Oreste Bonavitacola, va però oltre. Durante il processo, durato nove mesi, emergono due fatti importanti. Gli slip con tracce di sangue di Cristina non appartenevano a Perruzza, ma al figlio. Inoltre quando in Corte d'Assise d'appello Mauro raccontò di avere visto il padre uccidere Cristina aveva mentito.
Dal capanno, infatti, a causa del buio (l'omicidio fu compiuto intorno alle 20,45) non si poteva vedere assolutamente nulla. Tanto bastava ai legali per chiedere la revisione del processo per l'omicidio. Ma la Corte d'appello di Campobasso prima e la Cassazione poi respinsero l'istanza.
Perruzza capì allora che per lui era finita. Di lì a poco il suo cuore cessò di battere. Le sue ultime parole furono: «Non sono stato io a uccidere Cristina».
IL DELITTO. Cristina scompare la sera del 23. Il suo corpo viene scoperto la mattina dopo, in mezzo ai rovi, in un fossato, a circa 100 metri dal centro abitato. La piccola indossa solo una maglietta, gli altri vestiti sono sparsi qua e là nella vicina radura. A tre metri circa dal fossato c'è una vasta macchia di sangue. Poco distante, ai piedi di un muro di contenimento, viene trovata una grossa pietra macchiata di sangue.
LE INDAGINI. Vengono coordinate dal sostituto procuratore della Repubblica di Avezzano, Mario Pinelli. L'autore dell'omicidio, secondo gli inquirenti, andava cercato tra gli abitanti del borgo. Così tutti vengono interrogati. La sera del 26 agosto Michele Perruzza viene convocato alla caserma di Balsorano e ascoltato dal dottor Pinelli. Contemporaneamente, a Case Castella, il capo della Mobile dell'Aquila, Pasqualino Cerasoli, raccoglie la testimonianza della moglie di Perruzza, Maria Capoccitti. La versione dei due coniugi coincide. Raccontano di essere rientrati a casa, da un fabbricato in costruzione, verso le 21. Davanti al cancelletto dell'abitazione incontrano il figlio Mauro, che a sua volta stava rientrando. Cristina l'avevano vista per l'ultima volta verso le ore 20.15, allontanarsi con il figlio. Viene così convocato in caserma anche il ragazzo. Sono le 22.
L'AUTOACCUSA. Messo alle strette, Mauro confessa di avere ucciso lui la cugina. Alle 23,20 il dottor Pinelli annuncia che il caso è stato risolto. A uccidere Cristina sarebbe stato il cugino di 13 anni. A questo punto il ragazzo, che nel lasciare la caserma ha rischiato il linciaggio, è stato portato al Palazzo di giustizia di Avezzano, per essere interrogato dal procuratore del tribunale per i minorenni, Duilio Villante. Al magistrato Mauro conferma la versione resa al dottor Pinelli. Racconta in sostanza di essersi accompagnato con la cugina nel boschetto, dove questa poi è stata trovata uccisa, e qui avrebbe iniziato un gioco da adolescenti. La piccola, probabilmente spaventata, avrebbe cercato di fuggire, ma sarebbe incespicata, cadendo e battendo violentemente la testa su un sasso.
LA RITRATTAZIONE. Al momento della chiusura del verbale il colpo di scena. Improvvisamente il ragazzo ritratta e accusa dell'omicidio il padre. Racconta di avere visto, mentre era seduto in piazza, il padre avviarsi, tenendo per mano Cristina, verso il boschetto. Dopo un po', insospettito, li avrebbe seguiti e, appostandosi dietro una cabina dell'Enel, avrebbe visto il padre colpire in testa la nipotina con un masso. Come Mauro dall'autoaccusa sia passato all'accusa al padre, non si sa. La cassetta con la registrazione delle frasi del passaggio è misteriosamente sparita.
L'ARRESTO. All'alba del 27 agosto, comunque, Perruzza viene arrestato. Mentre il muratore viene portato in carcere, il dottor Pinelli, in una conferenza stampa, rivela che l'assassino di Cristina è lo zio.
I PROCESSI. In Corte d'assise dell'Aquila i legali di Perruzza, Leonardo Casciere e Domenico Buccini, adottano la linea difensiva cosiddetta della «terza via». L'autore dell'omicidio andava cercato fuori da casa Perruzza. Il giovane su cui i difensori avevano fatto gravare i sospetti, però, all'ora del delitto, stava giocando a calcetto a Ridotti. Perruzza viene così condannato all'ergastolo. La sentenza viene accolta con un applauso dagli abitanti di Case Castella presenti in aula. La sera in paese la condanna del muratore viene festeggiata con i fuochi d'artificio. L'ergastolo a Perruzza viene confermato in secondo grado e in Cassazione. Decisiva in Corte d'Assise d'appello è stata la testimonianza di Mauro.
Il ragazzo, cambiando ancora una volta versione sulla dinamica del delitto e sul punto di osservazione, racconta in aula di avere visto da un capanno il padre chino sulla cuginetta mentre la strozzava. I giudici però gli hanno creduto.
PROCESSO-SATELLITE. I legali di Perruzza, Attilio Cecchini e Antonio De Vita, però, non si danno per vinti. L'occasione per riprendere la battaglia viene offerta da un processo satellite a Sulmona, dove sono imputati Perruzza e la moglie. I due sono accusati di avere costretto il figlio Mauro ad autoincolparsi del delitto. Il tribunale, presieduto dal giudice Oreste Bonavitacola, va però oltre. Durante il processo, durato nove mesi, emergono due fatti importanti. Gli slip con tracce di sangue di Cristina non appartenevano a Perruzza, ma al figlio. Inoltre quando in Corte d'Assise d'appello Mauro raccontò di avere visto il padre uccidere Cristina aveva mentito.
Dal capanno, infatti, a causa del buio (l'omicidio fu compiuto intorno alle 20,45) non si poteva vedere assolutamente nulla. Tanto bastava ai legali per chiedere la revisione del processo per l'omicidio. Ma la Corte d'appello di Campobasso prima e la Cassazione poi respinsero l'istanza.
Perruzza capì allora che per lui era finita. Di lì a poco il suo cuore cessò di battere. Le sue ultime parole furono: «Non sono stato io a uccidere Cristina».
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