Poveracci e disperati senza diritto di parola

9 Luglio 2010

Nella Capitale dentro il corteo: sarà una battaglia lunga ma vale la pena combatterla

ROMA. C'è un elemento che va subito sottolineato: non sono i volontari della protezione civile a dover avere paura di recarsi all'Aquila - come aveva detto qualche settimana fa il premier - ma sono gli aquilani terremotati che devono aver paura di andare a Roma sotto la casa del presidente del consiglio. Ieri, le manganellate più forti, da parte delle forze dell'ordine ai manifestanti, sono arrivate proprio a due passi da Palazzo Grazioli.


AQUILANI A ROMA Cronaca | Foto | Audio

Ed è stata questa la rappresentazione "plastica" della situazione in cui si trova il capoluogo d'Abruzzo, L'Aquila: la città è distrutta, gli abitanti chiedono strumenti finanziari per ricostruirla e trovano invece i manganelli.
Intorno alle 19 mentre risalivo sul pullman che mi avrebbe riportato da Roma nella mia casetta di Onna mi sono chiesto: che cosa hanno ottenuto gli ottomila aquilani che per tutto il giorno sfidando le botte e il gran caldo, hanno gridato la loro rabbia nelle vicinanze dei palazzi del potere? C'è sicuramente un dato positivo: i politici "disturbati" dal chiasso e da quel grido ripetuto e più eloquente di mille parole «L'Aquila-L'Aquila» hanno dovuto almeno per poche ore occuparsi di questi "poveracci" di terremotati. In realtà da Camera, Senato, palazzo Chigi sono arrivati più silenzi imbarazzati che decisioni concrete.


Quella parola «poveracci» era stata usata da quei due imprenditori che ridevano la notte del terremoto mentre noi vedevamo morire figli, genitori, parenti e amici. I «poveracci» di solito, vanno bene se stanno zitti. Se alzano un po' la testa vanno prima evitati, poi scansati e infine schiacciati. Ed è esattamente quello che è accaduto ieri mattina: quando non è stato più possibile bloccare il corteo sono arrivati i colpi di manganello.
Ieri sera la questura di Roma ha diffuso un comunicato. Ha attribuito la colpa degli scontri a non ben identificati no global o qualcosa di simile. Notizia smentita dai parlamentari e dagli amministratori in prima fila e, io che ero a due passi, lì davanti ho visto solo tante facce di aquilani. Arrabbiate, questo sì.

Poi, all'ora del tramonto ecco note di agenzia che rimbalzano notizie come cavallette impazzite. Viene definita una "svolta" la decisione (che poi è come al solito un annuncio che dovrebbe diventare emendamento e poi chissà cosa) di far restituire tutte le tasse non pagate in questi 15 mesi, rateizzandole in 10 anni e non in 5. Come dire: una morte un po' più lenta.

C'è chi riferisce inoltre di incontri cordiali con la presidenza del Senato, di improbabili vertici - sempre in quel palazzo Grazioli - in cui si sarebbe discusso del terremoto dell'Aquila. Tutto fumo che si è attaccato al sudore sulla schiena di chi non si vuole piegare. La vera buona notizia sarebbe un disegno di legge di tre righe: per la ricostruzione dell'Aquila vengono stanziati 3 miliardi all'anno per dieci anni. Da finanziare con una tassa di scopo. Ma questo, per ora, resta un sogno che solo la determinazione degli aquilani potrà far diventare realtà. Una determinazione che ieri si è vista tutta. Anche i tanti che sono rimasti a casa o per scelta o per impegni a cui non hanno potuto rinunciare a un certo punto si sono come materializzati in mezzo al corteo.

Quando dalle tv sono arrivate nelle case immagini e notizie di quello che stava succedendo nel cuore della Capitale, i telefonini sono letteralmente impazziti: chi chiedeva lumi sulla salute dei manifestanti, chi invitava a non mollare "pentendosi" per il fatto di non essere lì, chi prometteva che la prossima volta ci sarebbe stato. I turisti e i romani che hanno incrociato il corteo hanno mostrato comprensione e tanti si sono informati su qual è la reale situazione oggi all'Aquila. Un messaggio è partito chiaro e forte: la ricostruzione dell'Aquila deve essere una questione nazionale. Come può il governo di uno Stato fra i più ricchi del mondo stabilire che una città con ottocento anni di storia debba essere cancellata e al suo posto far nascere tanti "alveari" nei quali si annulla la memoria e il senso di appartenza degli abitanti alla propria comunità.

Ieri mattina migliaia di persone si sono alzate presto, sono salite sui pullman, hanno utilizzato macchine private per gridare forte che non c'è più tempo. A Piazza Venezia sono spuntate le bandiere neroverdi e alcuni striscioni. Il primo blocco all'ingresso di via del Corso, poi a metà, poi un dedalo di viuzze, ritorno indietro. Tutt'intorno forze dell'ordine in assetto antisommossa.

Nonostante la fatica nessuno si è lamentato e non ha mollato fino alla fine, quando, sulla strada verso gli autobus, gli aquilani si sono fatti sentire fin sotto la sede della Protezione civile.
La battaglia per ricostruire L'Aquila ha segnato un'altra data storica: 7 luglio del 2010. Ma c'è da giurarci che non è finita qui.

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