Tre mesi fra incubo e speranza

Dopo novanta giorni la vita resta precaria e c’è tanta incertezza sul futuro.

L’AQUILA. Quel giorno di tre mesi fa. Era una domenica. Erano passate da poco le 22,30. Proprio come adesso, mentre scrivo. Era stata l’ultima sera felice della mia vita. Ma io non lo sapevo. Avevo cenato con i miei figli, Domenico e Maria Paola, avevamo fatto progetti per il giorno dopo. I piccoli progetti di una vita normale: andare a scuola, il compito in classe da superare, il lavoro che riprende. Poi poco prima delle 23 la prima scossa. La solita scossa, mi era venuto da pensare. Alle 23,45 la seconda. Più o meno come la prima. Poi le 3.32: la vita non cambia, finisce. Novanta giorni. Giorni di disperazione. Non hai più nulla, nemmeno la forza di gridare. Eppure sei vivo. Ti guardi intorno e vedi solo l’orrore. Devi ricominciare, ma non sai da dove. Stilare un bilancio è complicato. I bilanci hanno le entrate e le uscite. Difficile farlo se ci sono solo le uscite, se hai perso persone care, beni materiali, il tuo mondo. A questo nessuna ricostruzione potrà servire.

Quando sento parlare di terremoto noto che spesso ci si dimentica delle vite che non ci sono più. Tutto diventa una sorta di spettacolo e lo spettacolo come sempre deve continuare. Per chi non ha più gli affetti il vuoto non si riempie. E’ curioso: il sei aprile è come se qualcuno avesse deciso di farti rinascere dopo averti spogliato di tutto ciò che nella vita precedente avevi cercato di costruire. Ci si sente come un bambino: si aprono gli occhi al mondo, si vedono persone che si muovono, gente indaffarata e non si capisce perché questo accade. Eppure accade e quindi se ci sei non puoi tirarti indietro. Centinaia di morti, migliaia di feriti. Una città e paesi sventrati. Tanta solidarietà. Progetti per la ricostruzione. Ma oggi quello che domina in chi è stato dentro il terremoto è la precarietà dell’esistenza. Non sai se e quando avrai di nuovo un tetto sulla testa. Devi fidarti di quello che ti dicono.

E spesso chi progetta per te sostiene che sta facendo di tutto per darti una bella casa. Anche se magari te la costruisce a qualche chilometro di distanza da dove sei nato e cresciuto. A Onna avremo le casette di legno. Meglio quelle, messe a fianco alle macerie del vecchio borgo, che una reggia a dieci chilometri da dove abitavi prima. Le comunità non sono fatte solo di pietre e cemento. Ma i problemi sono enormi: ogni volta che entro nel centro storico dell’Aquila mi viene la malinconia: per ora l’unica cosa che è stata fatta è dire che ci vorranno anni per ricostruirlo. Il problema è quando si inizia. Poi c’è ancora tanta, troppa gente nelle tende. Qualcuno della Protezione civile ha parlato di tendopoli come «campeggi a quattro stelle». Forse io vivo fuori dal mondo, ma nelle tende si sta male. Chiunque dice il contrario non c’è mai stato. Nemmeno un minuto. E anche chi sta negli alberghi della costa forse riuscirà a farsi qualche doccia in più, ma l’incertezza sul futuro è la stessa. E le scosse continuano.