Da pm alla Cassazione, Aceto nominato presidente della Sezione penale

24 Novembre 2025

Il magistrato di Pescara racconta 36 anni di carriera fino all’incarico più ambìto «Il primo giorno in aula non riuscivo a parlare, il diritto? È come un puzzle»

PESCARA. «Sono entrato in magistratura il 21 giugno del 1989, era il primo giorno d’estate: avevo appena 25 anni». Da quel giorno di sole e caldo, in 36 anni di carriera, Aldo Aceto ha fatto un po’ tutto: ha iniziato come uditore giudiziario, poi sostituto procuratore della pretura, è stato pm della procura di Pescara, quello che ha cominciato l’indagine sui veleni di Bussi, giudice per le indagini preliminari, giudice dell’udienza preliminare, presidente del collegio penale, giudice monocratico e giudice del Lavoro e consigliere della Corte di Cassazione. E ora, l’ultima nomina decisa dal Consiglio superiore della magistratura: Aceto è diventato presidente della Sezione penale della Cassazione.

Presidente, se guarda indietro al primo giorno di università, facoltà di Giurisprudenza a Teramo, cosa prova?

«È stato un batter di ciglia, tutto un attimo. La verità è che quando si lavora tanto non c’è mai il tempo di voltarsi, guardare indietro e apprezzare il cammino perché siamo talmente presi e oberati dai nostri impegni che non ci facciamo caso. Ma più che all’università, ripenso spesso al primo giorno da sostituto procuratore alla pretura di Pescara: era il 12 luglio 1990».

Si ricorda ancora la data?

«E come si fa a dimenticarsela? Ero molto, molto teso quel giorno: quando il giudice mi diede la parola non riuscivo nemmeno a parlare. Ho sempre avvertito, fin da allora, il senso di responsabilità di questo mestiere. L’esperienza alla procura della pretura è stata una palestra straordinaria, così come lo è stata anche il mio incarico di giudice a Larino: dopo 18 anni da pm, facevo il giudice per la prima volta e quella è stata un’esperienza travolgente. Il 9 giugno del 2008, a Larino, ho fatto la prima udienza come giudice del Lavoro. Sono legatissimo a Larino, a Campobasso e a tutto al Molise: lì mi hanno accolto benissimo e lì ho imparato a fare il mestiere del giudice».

Si impara a fare il giudice?

«Certo che sì. Io ero andato a Larino, per fare il giudice, ma nella prospettiva di migliorare il mio modo di fare il pm».

Uno scambio di ruoli?

«Le spiego: nella mia carriera ho conosciuto colleghi che hanno fatto il giudice ancora prima di fare il pm e la differenza di impostazione si vede e, in fin dei conti, è inevitabile. All’epoca, il procuratore di Pescara, Enrico Di Nicola, mi diceva sempre che un pm deve avere la capacità di sdoppiarsi, cioè fare l’investigatore a tutto campo e cercare ovunque per l’accertamento della verità ma poi, a un certo punto, bisogna fermarsi e mettersi nei panni del giudice e capire se si può davvero sostenere un’accusa e arrivare fino a una sentenza di condanna. Ovviamente, vale anche il contrario. Fare il giudice, sia civile che penale, un’esperienza che mi ha richiesto tanto sacrificio, mi ha portato poi fino al lavoro in Corte di Cassazione, era il 9 gennaio 2014, e adesso, dopo 11 anni, mi ritrovo a fare il presidente di sezione».

E cosa voleva fare da grande, il magistrato o è stato un incidente di percorso?

«Da bambino volevo fare il medico con tutto me stesso. Poi, ho cambiato idea quando stavo per iscrivermi all’università. All’ultimo anno, a Teramo, incontrai un prof di diritto penale, Vincenzo Scordamaglia, che è stato anche sostituto procuratore generale in Cassazione, e fu determinante: mi guardò negli occhi e mi disse: “Ma lei vuole fare il notaio o il magistrato?”. E lì decisi che avrei fatto il concorso in magistratura: lo superai al primo tentativo collocandomi al terzo posto in graduatoria. Insomma, sono entrato in magistratura che avevo appena 25 anni, il 21 giugno del 1989».

Si ricorda tutte le date?

«Sempre, è un mio difetto».

Ma fare il magistrato, trenta o quarant’anni fa, era più difficile che farlo adesso?

«Sono cambiate tante cose da allora: è cambiato il mondo ed è cambiata la società. All’epoca avevamo molte risorse in meno: non avevamo neanche i computer, internet e l’intelligenza artificiale non esistevano, facevamo ricerche soltanto sulla carta e studiavamo le sentenze sulle riviste di diritto. Adesso, le banche dati sono infinite e, per esempio, trovare un precedente giuridico è semplice. Ricordo che quando ho preso possesso del mio incarico da sostituto procuratore, stavano nascendo le procure in pretura e, in quel periodo, non c’erano nemmeno le sedie per lavorare. In compenso, avevamo montagne di carte ed eravamo anche pochi: su cinque in organico, a Pescara, ne eravamo soltanto tre. Ma poi la situazione si è stabilizzata via via. Con me, c’erano Salvatore Di Paolo, Angelo Zaccagnini ed Ettore Cordisco, che era procuratore: avevamo una grande voglia di confrontarci tra colleghi e tra uffici: c’era l’abitudine di incontrarsi con i vari colleghi dell’Abruzzo su questioni che riguardavano l’applicazione del Codice, era un confronto proficuo da cui nacque anche una rivista “Notiziario giuridico abruzzese” che è stata l’embrione della formazione permanente dei magistrati. C’era partecipazione corale e non c’era distinzione tra giudici e pubblici ministeri: era un qualcosa che, poi, ho fatto difficoltà a ritrovare dopo, quando, a causa degli impegni pressanti, finisce per prevalere una mentalità a volte un po’ burocratica».

Da allora a oggi, la giustizia resta uno dei terreni di scontro preferiti dalla politica: riforma sì o riforma no?

«Per prima cosa: sono contrario alla separazione delle carriere perché, per me, non risolve niente. Secondo: teniamoci stretta questa Costituzione perché se siamo usciti dalle macerie della Seconda guerra mondiale e siamo arrivati fino a qui, è accaduto grazie a questa Costituzione. E non penso che sia necessario aggiungere altro».

Capisco, ma perché la politica ha l’ossessione della giustizia?

«Sinceramente, non lo so».

Un presidente di Cassazione ha la responsabilità di orientare la giurisprudenza: come interpreterà questo ruolo?

«Nel modo più democratico possibile: orientare la giurisprudenza non significa essere indifferenti alle richieste che provengono dal basso e si aggiornano giorno dopo giorno, l’importante è garantire il dibattito e scegliere la soluzione ogni volta più ragionevole».

Allora, la giurisprudenza si evolve e asseconda i cambiamenti della società?

«Il diritto è come un puzzle: non si può spostare una tessera senza che venga meno l’armonia di tutto il quadro. Pensi al concetto di oscenità oppure a quello di violenza rispetto a cinquant’anni fa: la parola chiave è adattamento. In Cassazione, il presidente è un punto di riferimento ma nessuno mi ha mai detto: “Questo è l’indirizzo e bisogna decidere in tal mondo”. Un indirizzo non è immutabile in eterno perché ci sono istanze che spingono dal basso, a partire dalle questioni che pone l’avvocatura, sempre diverse ogni giorno».

Quando si raggiunge un traguardo importante, si dice grazie: lei a chi dice il suo grazie?

«Ai miei genitori: se non avessero fatto tanti sacrifici per farmi studiare chissà cosa farei e dove sarei. Ma non conta solo l’aspetto materiale: il loro incoraggiamento non mi è mai mancato. E grazie a mia moglie Francesca Del Villano (consigliera della Corte d’Appello di Roma, sezione Lavoro, ndr): senza di lei non sarei mai arrivato fin qui. Ci siamo conosciuti in procura, a Pescara, e ha condiviso con me tutte le scelte più difficili, dal trasferimento a Larino fino alla Corte di Cassazione, e non mi ha mai tarpato le ali».