Di Pietrantonio e Setak insieme per la Palestina: «Basta negare il genocidio»

Poesie, musica e riflessioni insieme alle attiviste Flacco e Sirena. La scrittrice: «Futuro inquietante, si innesca l’odio nei più giovani»
PENNE. Un sacco di farina intrisa di sangue. È l’immagine che Donatella Di Pietrantonio, dal pulpito dell’evento “Un grido per Gaza”, proietta alla folla radunata ieri pomeriggio a Penne in una via Berlinguer stracolma, tra i tavoli del Tibo dove non c’era più spazio neppure per uno spillo. Il sole scendeva e le persone aumentavano, dalle casse riecheggiavano le parole della scrittrice. Ma le sue parole erano in realtà i versi delle poesie che insieme a Irene Cocchini ha letto da Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza, raccolta che include versi scritti da giovani poeti come Haidar al-Ghazali nella Gaza sotto assedio, dove immaginare un futuro è diventato impossibile, dove in pochi secondi una bomba cancella i ricordi di famiglia, la vita di un bambino. Nei giorni dell’esodo da Gaza City verso l’ignoto, mentre l’esercito di Israele avanza radendo al suolo ogni angolo della città, la poesia disegna l’unica strada che non sia ricolma di disperazione.
È un modo per celebrare la vita, la libertà nascosta nell’orrore del quotidiano: «Hanno detto che minacciavi il paese / con una cintura esplosiva in vita / Solo io sapevo quanto amavi / le cinture di rose». Di Pietrantonio legge con voce commossa. Accanto a lei c’è il palchetto su cui campeggia la grande bandiera palestinese, ci sono le attiviste Elsa Flacco e Andreina Sirena a tracciare le coordinate storiche del conflitto dall’Ottocento ad oggi, e il cantautore Setak (Nicola Pomponi) a dare con la musica un’altra forma alle parole. Trovarle è difficile nel momento più duro nella storia della Palestina: «Ho ricevuto poco fa un messaggio da una famiglia che abbiamo adottato da Gaza», racconta Sirena, «Vivono a nord e non trovano carburante, non riescono a scappare verso sud. C’è morte ovunque, sono circondati dalla desolazione».
Con Flacco, accanto a lei, racconta il sostegno dato «per acquistare una tenda, ma non basta: cinque persone non possono vivere un esodo senza un mezzo». Non solo: «Una tenda da campeggio costa circa mille dollari lì, è impensabile per noi ma è così. I bambini di Gaza non mangiano frutta e verdura da un anno e mezzo, da un anno la carne costa 300 dollari al chilo. Lo zucchero è così poco che si vende al cucchiaino». Sono immagini di una catastrofe che in tutto l’Abruzzo ha mobilitato migliaia di cittadini con cortei tra Pescara, L’Aquila, Vasto, Avezzano, Teramo. Anche a Penne la partecipazione è immensa: tra i tavoli radunati per l’evento c’è l’umanità ritrovata di una comunità fatta di giovani, anziani, bambini.
«Abbiamo la responsabilità di ricostruire la storia di questo paese martoriato senza compiere l’errore», prosegue Sirena, «di partire, come accade con le narrazioni di oggi, dai fatti recentissimi, dall’attentato di Hamas di due anni fa. No, la questione è molto più complicata di così. Bisogna andare indietro». E con il racconto del conflitto, dalla caduta dell’Impero Ottomano, le canzoni di Setak (Càmine, Picchè, Curre curre, Figli della storia) e i versi dei poeti gazawi («Le nostre foto di famiglia / un sacco di brandelli / un mucchio di cenere») aiutano a dare colore ai volti altrimenti «disumanizzati dei palestinesi», dice Flacco: «Per Israele, che vive ormai nella piena impunità, la Palestina è “Amalek”. Così Netanyahu richiama la tribù biblica degli amalechiti, che nella Bibbia vengono sterminati anche tra bambini e bestiame, per dare un messaggio molto preciso».
Ma neppure gli animali patiscono la tragedia di questa guerra come accade ai bambini, in una mattanza da 20mila vittime in due anni. «La bambina il cui padre è stato ucciso / mentre portava un sacco di farina sulla schiena / continuerà a gustare / il sangue di suo padre / in ogni pane», legge Di Pietrantonio. «Mi sembra», dice, «che questa sia un’immagine inquietante del futuro, colpisce davvero per il suo valore simbolico. Fa pensare a quanto odio si sta inoculando nelle generazioni future, quanta paura e quanto orrore si stia seminando. Questo è un genocidio, è da ipocriti cavillare sulla parola».
Quando l’evento finisce sotto gli applausi scroscianti, la folla si raduna attorno al banchetto per le donazioni ad Emergency. Si va via con un libro tra le mani, si scambiano alcune parole. Sui telefonini qualcuno legge gli ultimi aggiornamenti del conflitto in tempo reale mentre l’aria ancora mulina i versi delle poesie. Un fiore colto, un fiore donato. E, nel mezzo, «l’inesprimibile nulla».
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