«Di Santo ha rischiato di far saltare in aria la casa»

23 Ottobre 2013

I carabinieri del Gruppo speciale ricostruiscono in aula la pericolosità del congegno esplosivo allestito dal 58enne sotto l’abitazione dei vicini

PESCARA. Se ne sta in silenzio, con la voglia di parlare rinviata alla prossima udienza (il 17 dicembre), e quel segno di vittoria esibito ancora con le dita (come aveva fatto al momento dell’arresto), quando qualcuno lo chiama e gli sorride prima del processo.

Roberto Di Santo, il bombarolo di Roccamontepiano di 58 anni accusato degli incendi a Villanova di Cepagatti e a Chieti (davanti al Tribunale e alla Madonna della Misericordia), e di due roghi a Bucchianico e a Ripa Teatina , con cui all’inizio di gennaio ha catalizzato l’attenzione dei media per protestare «contro le ingiustizie e l’iniquità del sistema», ieri mattina si è seduto accanto al suo difensore, l’avvocato Roberto Di Loreto, e per circa tre ore ha ascoltato le deposizioni dei testimoni chiamati dal pm Silvia Santoro a deporre davanti al collegio presieduto da Rossana Villani. Hanno cominciato i carabinieri della compagnia di Pescara che hanno ricostruito nel dettaglio gli attentati incendiari e le indagini che nel giro di dieci giorni, tra l’8 e il 18 gennaio, portano alla cattura e all’arresto di Di Santo in un casolare di Rosciano. In particolare, il maresciallo capo Davide Somma ha riferito dell’incendio di un’auto segnalato da un cittadino intorno alle quattro di pomeriggio dell’8 in via Piemonte, a Villanova di Cepagatti, e della telefonata arrivata poche ore dopo in cui lo stesso Di Santo riferiva di essere lui l’autore del rogo appiccato alla macchina. Una Golf intestata alla vicina di casa della sorella di Di Santo con cui, come ha ricostruito il teste, da tempo erano in atto dissidi in relazione alla divisione di alcune parti comuni della palazzina a due piani. Liti a cui sin da subito gli investigatori hanno ricollegato quel rogo a cui seguì il ritrovamento del cd in cui lo stesso Di Santo riferiva che nell’abitazione della sorella, sotto quella dei vicini, aveva collocato un congegno che al minimo rumore sarebbe esploso. Un congegno che, come hanno spiegato i due carabinieri del Gis arrivati da Livorno per raccontare l’intervento di gennaio, sarebbe potuto esplodere anche se le bombole di gas erano chiuse e non completamente piene. Particolare, questo, su cui si è soffermato il difensore Di Loreto per cercare di capire l’oggettiva potenzialità di quell’ordigno. Ma alla domanda dell’avvocato, se era presente un dispositivo concreto di attivazione e se quell’ordigno sarebbe potuto esplodere, entrambi gli specialisti sono stati categorici: «Per saturare una stanza chiusa, sigillata, basta anche una bombola di gas che perde. E il gas contenuto in quelle due bombole era comunque in una quantità sufficiente per far saltare in aria la casa».

Tra le ultime a parlare è stata proprio la parte civile, Francesca De Marco, proprietaria dell’auto bruciata da Di Santo e destinataria, secondo l’accusa, di quell’ordigno piazzato nell’appartamento al piano terra della palazzina dove Di Santo da un mese e mezzo stava facendo i lavori di ristrutturazione per conto della sorella. «Con lui non abbiamo mai avuto problemi», ha detto De Marco, «anche se abbiamo deciso di non salutarlo più quando sono iniziate le liti con la sorella». Liti confermate anche da Patrizia Di Santo che, visibilmente agitata, ha raccontato di quei dissidi confidati al fratello: «Era l’unico che mi ascoltava, gli ho confidato tante cose, tanto che oggi mi sento un po’ colpevole». Poi è stata la volta dell’amico di Di Santo e proprietario del camper con cui il 58enne sparì dalla notte del primo rogo, Claudio Antonucci: «Me lo chiese in prestito quando andò a lavorare all’Aquila, poi me lo richiese dicendo che doveva fare dei lavori in casa della sorella, che avrebbe usato dei materiali tossici e che sarebbe dovuto rimanere lì un mese. Eravamo diventati amici, anche se Roberto è sempre stato molto pudico per le sue cose».

©RIPRODUZIONE RISERVATA