ECCO IL PD, UN PARTITO CONFUSO E INFELICE

Se state impazzendo perché in questi giorni siete alle prese con il pagamento delle tasse sulla casa, pensate al Pd. Che c’azzecca - domanderete - il partito che ha appena vinto, suo malgrado, le elezioni con quella babele di sigle incomprensibili ma carissime? Imu, Tasi, Tari.

Che poi tutte insieme un giorno diventeranno Iuc? Parametri sofisticati; calcoli dello zero-virgola-qualcosa che cambiano di anno in anno; tempo sprecato e soldi che se ne vanno. Mal di testa e mal di stomaco.

Ecco: il Pd, nonostante Renzi, è come l’Imu, la Tasi, la Tari. Un grumo di interessi costoso e impermeabile. Spesso incomprensibile. A tratti compromesso. Che provoca, appunto, dolori feroci alla pancia e al cervello.

Esemplare l’ultima vicenda impersonata nel senatore Corradino Mineo, già volto noto della Rai, trasformato in un epurato di successo.

Contrario alla proposta di riforma del Senato firmata per conto del premier dalla ministra alle Riforme Maria Elena Boschi, Mineo è stato rimosso dalla commissione Affari costituzionali perché s’era schierato con l’opposizione. Per solidarietà, altri 14 senatori Pd si sono sospesi dal gruppo; tra questi nomi che contano come Vannino Chiti e Felice Casson. Ed è andata in onda la bagarre. Il renzismo come malattia infantile dello stalinismo? O l’estremismo come malattia senile del protagonismo? Oggi nella direzione nazionale di quel partito è annunciata la resa dei conti.

Proviamo intanto a rimettere insieme i cocci. Legittimo criticare l’ipotesi di riforma del Senato. Perché, se è vero che quasi tutti sono d’accordo nell’eliminare il bicameralismo perfetto, lo scontro in atto verte sulle modalità di formazione della Camera alta.

Non sarà più eletta direttamente dai cittadini; e questo è un errore. Sarà composta invece da sindaci di grandi città e da presidenti e consiglieri regionali. E questo è un altro errore. Perché già a stento i sindaci di Milano, Roma, Napoli riescono a fare quel che gli compete; figuriamoci se devono “lavorare” pure come senatori. Lo stesso vale per i presidenti delle Regioni.

Tuttavia questa pasticciata riforma è stata discussa e approvata dai parlamentari del Pd in tutte le sedi decisionali. Le voci contrarie sono state sempre una insignificante minoranza. Secondo il capogruppo Luigi Zanda, i senatori del Partito democratico si sono riuniti per ben 16 volte per confrontarsi sul tema delle riforme da varare. Insomma la democrazia interna di una organizzazione complessa qual è un’assemblea parlamentare sarebbe stata ampiamente rispettata.

Come è evidente che il Pd è l’unica forza politica con una vita democratica interna; il che va a suo merito. A differenza degli altri due partiti personali.

Ma il punto è proprio questo. Come conciliare la dialettica democratica con la concretezza delle decisioni.

Il Pd si è dissanguato negli anni con la sua inconcludente litigiosità e con la inconsistenza della proposta politica. Bersani ha dato il volto alla sconfitta. Ora il Pd - e ancor più l’Italia - ha un leader con più di 11 milioni di voti e il 40,8 per cento dei consensi. Ma. in quel partito riemerge puntuale la sindrome della disfatta. Incapace di trovare le forme e i modi giusti per correggere una riforma che va corretta. Più dominato da franchi tiratori - come nel recente voto sulla responsabilità civile dei magistrati - che da pazienti tessitori.

Così il merito delle questioni scompare e si ritorna al vociante individualismo da talk show. Corradino Mineo si riguadagna la sua mezz’ora di notorietà. I renziani di complemento fanno la voce grossa. La sostanza delle riforme può attendere.

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