Ena, la madre della piccola uccisa nel rogo, è tornata a Cepagatti: ecco la sua verità

Tragedia alle porte di Pescara. La donna è stata ricoverata tre mesi in ospedale a Roma per le gravi ustioni subìte nell'incendio appiccato dall'ex: "Mi ingannò chiedendomi un passaggio"
CEPAGATTI. Si affaccia diffidente dal balcone al primo piano della bella palazzina a due passi dalla caserma dei carabinieri. Ena Pietrangelo, 44 anni, è tornata a casa dopo più di tre mesi al Centro grandi ustionati dell’ospedale Sant’Eugenio di Roma. Non ha voglia di parlare e mentre saluta con la mano, sussurra un no che racconta più di mille parole. Capelli corti, almeno sul volto non ha più i segni dell’inferno da cui riuscì a salvarsi il 27 aprile. Ma la sua Neyda non c’è più, non si è salvata. E questo è tutto.
Neyda che a cinque anni poteva vedere il papà solo in incontri protetti (Gianfranco Di Zio era stato condannato per maltrattamenti, abuso dei mezzi di correzione e lesioni) e che invece quella domenica pomeriggio, come ha ricostruito la squadra Mobile di Pierfrancesco Muriana, è rimasta vittima della trappola architettata proprio da quel papà allontanato da casa quasi un anno prima, dopo le denunce presentate da Ena ai carabinieri di Cepagatti. Lo stesso papà che quel maledetto pomeriggio con un pretesto ben studiato riesce a incontrare madre e figlia per poi rovesciargli addosso, mentre sono in macchina, la bottiglietta di benzina con cui appicca il rogo in via Lago di Chiusi, zona Tiburtina.Muoiono lui e la bambina che si tiene stretta fino alla fine. Ma è mezza morta anche Ena che riesce a salvarsi, e non sa neanche lei come. L’ha detto agli investigatori della squadra Mobile ai primi di agosto, subito dopo essere stata dimessa dal Sant’Eugenio dove l’operaia tessile è stata ricoverata tre mesi tra la vita e la morte per le gravi ustioni riportate su quasi la metà del corpo, sul volto e sulle mani.
Oggi, a cinque mesi da quell’incubo, Ena, che proprio sulle mani porta ancora i segni della lotta disperata per liberare la sua bambina, prova timidamente a ricominciare, circondata dall’amore dei genitori, del fratello e delle due sorelle e, naturalmente dalle tre figlie nate dal precedente matrimonio. È con loro che Ena è tornata ad abitare a Cepagatti, dove la famiglia è conosciuta e stimata da tutti e dove adesso ha ripreso a uscire, a farsi vedere in giro. Sempre riservata, sempre diffidente. Sempre dietro quel muro invisibile con cui protegge se stessa e, soprattutto, la memoria della sua Neyda. A sfondare quel muro ci hanno provato gli investigatori, per ricostruire la cronaca di quella morte annunciata e individuare eventuali responsabilità di terzi. Perché Neyda, secondo quanto stabilito dal tribunale dei Minorenni dell’Aquila, poteva vedere il padre solo un’ora a settimana il sabato mattina, nell’asilo di Cepagatti e alla presenza degli assistenti sociali del Comune. Ma Ena aveva paura di Gianfranco, delle sue reazioni violente e, secondo quanto riferito agli investigatori dall’assistente sociale che seguiva la famiglia, lo accontentava anche per proteggere le altre figlie.
Ma quel 27 aprile avviene l’imprevedibile. Tutto quello che Ena ricorda lo racconta ai poliziotti subito dopo essere stata dimessa dal Sant’Eugenio per continuare la convalescenza, lenta e dolorosa, nella sua casa di Cepagatti. Quella domenica di fine aprile, Ena porta Neyda dalla nonna paterna. Una visita programmata visto che il 24 aprile la bambina aveva fatto il compleanno e nonna e nipote non si erano viste.
In casa c’è anche Di Zio che chiede alla ex di accompagnarlo in auto nella zona del cementificio dove le dice di aver lasciato il motorino rimasto a secco. Le mostra perfino la bottiglia da mezzo litro piena di benzina, quella che secondo gli investigatori è la prova inconfutabile di quella trappola mortale e che invece per Ena, in quel momento, è solo la prova che l’ex compagno non le sta mentendo. È con questa fiducia che gli consegna le chiavi della Peugeout 206 su cui, lui alla guida e madre e figlia sul sedile posteriore, vanno verso la morte.
Perché quando Di Zio si ferma in via Lago di Chiusi del motorino non c’è traccia. Ma Ena non fa in tempo a rendersene conto perché all’improvviso, come riferisce ai poliziotti, lui salta dietro, mette le sicure e svuota la bottiglia di benzina su se stesso, su Ena e sulla piccola Neyda che blocca tra le sue braccia mentre appicca il fuoco con un accendino. Sono momenti talmente atroci che la memoria di Ena si arena e non registra più nulla. «Come ha fatto a uscire dalla macchina in fiamme?» le chiedono gli investigatori.
«Non lo so, non so neanche io come ho fatto».
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