Femminicidio Lettomanoppello, Di Pietrantonio: «Enorme responsabilità collettiva di chi è rimasto in silenzio»

La scrittrice Premio Strega: «Segnali sottovalutati. Quando non interveniamo, partecipiamo a quella rete di violenze invisibili che circonda le donne»
PESCARA. Il silenzio di un’intera comunità che sa, ma non agisce. Il senso di colpa della vittima, che la spinge a tacere e a chiudersi nel proprio dolore. La sensazione di essere sola. E la mancata denuncia. Sono temi complessi e dolorosi quelli che la scrittrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio, vincitrice del Premio Strega 2024, ha affrontato nella sala consiliare del Comune di Pescara – in occasione della cerimonia per la consegna dei Ciattè e dei Delfini d’oro – commentando il femminicidio che ha scosso la comunità di Lettomanoppello e l’intero Abruzzo: Antonio Mancini ha ucciso a colpi di pistola l’ex moglie Cleria, mentre quest’ultima passeggiava con il nipote minorenne. È da questa tragedia che la scrittrice torna a parlare di violenza, sottolineando come il silenzio e la solitudine restano, ancora oggi, le catene più difficili da spezzare.
Di Pietrantonio, il femminicidio di Lettomanoppello ha scosso un’intera comunità e la vittima, secondo le prime ricostruzioni, non aveva mai sporto denuncia. Quanto pesano, secondo lei, la vergogna e il senso di colpa che molte vittime, inspiegabilmente, provano?
«Credo che questo senso di vergogna e di colpa stia lentamente diminuendo. La nostra società è certamente più matura rispetto a quella di qualche decennio fa, ma resta il fatto che dobbiamo considerare con grande serietà ciò che accade. La vergogna e il senso di colpa sono esistiti, e in parte ancora esistono, perché quella era l’educazione che, un tempo, veniva impartita alle donne: si è insegnato loro a prevenire la violenza attraverso il comportamento, la moralità e la prudenza. È come dire: se ti succede qualcosa è perché tu, in qualche modo, la attiri. Solo con l’ascolto, con la parola e con una rete di sostegno reale, possiamo restituire libertà a chi ha subìto violenza».
L’uomo che ha ucciso Cleria aveva anticipato il suo intento sui social, ma nessuno è intervenuto. Si può dire che quel silenzio sia una seconda violenza, invisibile, ma altrettanto devastante?
«Intorno alla violenza reale ce ne sono tante altre che agiscono in modo silenzioso e, non per questo, meno doloroso. Penso, ad esempio, al silenzio che spesso circonda la vittima e, ancora, alla colpevolizzazione secondaria: quel processo per cui la società finisce per far sentire la donna responsabile della violenza subìta. Ma esiste anche una violenza più strutturale, come si è verificato in questo terribile femminicidio: la sottovalutazione dei segnali che molto spesso precedono l’esplosione di violenza. Quei segnali sono delle vere e proprie tappe che, se affrontate con il giusto peso, potrebbero evitare la tragedia finale. Troppe volte assistiamo a episodi in cui l’esplosione della violenza poteva essere prevenuta, ma questo non avviene perché non si presta attenzione a quei segnali premonitori che, ormai, conosciamo bene grazie al lavoro dei centri antiviolenza. La responsabilità collettiva, in questi casi, è enorme: quando restiamo in silenzio e non interveniamo, partecipiamo a quella rete di violenze invisibili che continua a circondare le donne».
Nel libro “L’età fragile” lei affronta anche la paura – molto comune tra le donne vittime di violenza – di trasmettere il trauma che hanno subìto ai propri figli. In che modo, invece, un’esperienza così dolorosa può trasformarsi in un bagaglio di forza da consegnare alle generazioni future?
«Penso che il non detto sia sempre un problema, soprattutto nel passaggio da una generazione all’altra. Il dolore taciuto non scompare, ma si trasforma e le esperienze, anche quelle più dolore, non devono mai essere nascoste. Certo, quando si parla con i propri figli e si racconta di un trauma subìto, bisogna saper trovare le parole giuste per raccontare il fatto, ma la rimozione non è mai la strada giusta da percorrere. Il motivo è semplice: ciò che ci portiamo dentro – come madri e donne – passa comunque per vie segrete e misteriose. E questo rappresenta un problema perché non sappiamo come arriva all’altra persona. Per questo ritengo che prendere parola per raccontare la violenza e la paura sia un atto doloroso, ma necessario: il dialogo è l’unica strada che porta alla liberazione».
Si danno spesso consigli alle donne su come prevenire la violenza. Se la sente, invece, di mandare un messaggio agli uomini violenti e alle istituzioni?
«Mandare un messaggio agli uomini violenti mi resta difficile, perché chi sceglie la violenza spesso vive in una dimensione di negazione del proprio disagio. Ma a questo punto direi, senza fare troppi giri di parole: fatevi curare. Alle istituzioni, invece, dico: andate oltre gli impegni formali, le dichiarazioni e le giornate commemorative. Serve una presenza reale, quotidiana e, soprattutto, concreta. Bisogna essere vicini alle donne non solo con le parole, ma con risorse e strumenti che funzionino davvero. Penso, ad esempio, ai braccialetti elettronici che spesso non funzionano come dovrebbero. Ma voglio dire: diamoci una mossa».
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