Gran Sasso, l’acqua è un giallo anche per gli scienziati 

Il direttore dei laboratori di fisica nucleare spalanca le porte ai sindaci. E svela: «Neppure noi conosciamo la mappa dei punti di captazione»

"Qui si fa di tutto per evitare che l'ambiente contamini gli strumenti di misura e viceversa». Così dice Stefano Ragazzi mentre apre le porte dei laboratori del Gran Sasso a sindaci e consiglieri comunali del Teramano a caccia di inquinamento. E' lui, il direttore dei laboratori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), a condurre gli amministratori locali, guidati dal presidente della Provincia Renzo Di Sabatino, nelle viscere della montagna: lì dove da metà degli anni '80, immerso nell'immenso acquifero che alimenta gli acquedotti di Teramo e l'Aquila, è operativa la più grande infrastruttura sotterranea di ricerca scientifica esistente al mondo. Ma il giallo dell’acqua, che il 9 maggio ha messo in crisi il sistema idrico di mezzo Abruzzo, cerca ancora risposte. Quelle risposte che ieri sono in parte arrivate.

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LA ZONA GIALLA. Il punto maggiormente delicato di questo sistema che costringe a una convivenza, che genera sospetti, l'acqua che finisce nei rubinetti di quasi un milione di abruzzesi, il traforo autostradale e le attività condotte nelle tre grandi sale dell'enorme caverna che disegna un triangolo è il suo vertice alto, quello più lontano dell'ingresso. La zona in cui l'antro, che se fosse svuotato di tutte le apparecchiature tecnologiche per dimensioni sembrerebbe quello di Polifemo, si restringe fino a formare una strozzatura è sbarrata da un'alta ringhiera gialla. «Lì in fondo», fa segno uno dei tecnici dell'Istituto indicando un punto a una cinquantina di metri di distanza, «viene captata l'acqua. Ma noi non possiamo entrare». L'accesso è consentito solo agli addetti di Ruzzo reti, la società acquedottistica teramana, e per evitare qualunque rischio di contaminazione gli scienziati si guardano bene dal mettere piede in quel triangolo di rocce e grosse tubature che corrono lungo il soffitto. Ragazzi confessa che per lui sarebbe molto meglio se l'acqua fosse prelevata altrove. «Dormirei molto più tranquillo», ammette.
QUALE ACQUA? E’ il direttore a rivelare che «manca una mappa dettagliata della rete che attraversa i laboratori». E lascia intendere che forse neppure il Ruzzo ce l'ha così chiara. «Non sappiamo quale acqua arriva», aggiunge, «questa invece sarebbe un'informazione da condividere per garantire la massima sicurezza dell'intero sistema Gran Sasso, non solo dei laboratori». A scanso di equivoci, però, l'istituto adotta pratiche cautelative, come avvenuto proprio nel periodo precedente l'allarme del 9 maggio quando, in occasione di lavori all'interno delle sale, l'acqua captata è stata messa in via precauzionale a scarico: smaltita senza finire nelle condotte idropotabili.
La contiguità con gli esperimenti in corso nelle viscere della montagna è inevitabile. Sotto l'impianto in cui è ancora in corso l’esperimento "Borexino", da cui nel 2002 si sversò il trimetilbenzene che inquinò la falda, si forma costantemente un accumulo d'acqua. «Per precauzione la raccogliamo in contenitori appositi», dice il direttore, «e la smaltiamo come rifiuto senza stabilire se è contaminata o pulita».

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IL COMMISSARIO. Dopo lo sversamento di 15 anni fa e l'inchiesta che portò anche al sequestro della sala C, in cui è ancora installato l'impianto del Borexino, i laboratori sono stati sottoposti a interventi di messa in sicurezza disposti dall'allora commissario Angelo Balducci. I pavimenti delle sale sono infatti attraversati per i venti metri della loro larghezza da un'ampia griglia metallica. «Qui finiscono gli eventuali liquidi che potrebbero disperdersi sul pavimento», spiega Ragazzi, «e che finirebbero in serbatoi di raccolta per essere poi smaltiti come rifiuti». Le acque di sgocciolamento, che trasudano dalla roccia viva, vengono convogliate in specifiche canalizzazioni e messe a scarico. «Anche queste sono comunque sottoposte a un costante monitoraggio, per rilevare la presenza di sostanze inquinanti, e sfociano attraverso un collettore in un impianto di trattamento e depurazione a Casale San Nicola», spiegano gli scienziati. Per l'acqua ad uso potabile, inoltre, è stato attivato un sistema di controllo che, in tempo reale, rileva la presenza di contaminazioni.
L'INCIDENTE. Lo strumento, a detta del direttore dei laboratori, è sensibile e preciso ma una falla nel sistema è emersa comunque il 30 agosto dell'anno scorso. Quando nella rete idrica sono state individuate tracce di diclorometano non rilevate in precedenza. «E' inquietante che se ne sia accorta l'Arta prima di noi», ammette Ragazzi, «ma proprio quel giorno il sistema di monitoraggio era in manutenzione». Il direttore infine annuncia a sindaci e consiglieri che i laboratori di doteranno di un secondo impianto destinato al controllo continuo della qualità dell'acqua evitando che si ripetano incidenti come quello di nove mesi fa. «Poi si tratterà di stabilire», precisa, «cosa far controllare all'apparecchiatura». Ma Ragazzi afferma che, dopo i lavori di messa in sicurezza seguiti all'incidente Borexino, «nessun altro contatto c'è stato tra i liquidi utilizzati nei laboratori e le acque di stillicidio e dell'acquedotto».