Stasera in Tv

Il figlio del carabiniere ucciso dalle Br e la verità attesa da 50 anni: «Io, forte come mio padre, così ho fatto riaprire il caso»

22 Maggio 2025

L’intervista a Bruno D’Alfonso stasera su Rete8 nella trasmissione “31 minuti” (ore 22). Ha perso il padre il 5 giugno 1975: «Avevo 10 anni, ascoltai la notizia al tg e pensai a un errore»

PESCARA. L’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, originario di Penne, aveva solo 45 anni e tre figli quando fu, prima, ferito da una bomba scagliata dai terroristi delle Brigate Rosse e poi giustiziato con un colpo di pistola sparato a bruciapelo. Era il 5 giugno del 1975, a Cascina Spiotta in provincia di Alessandria. Uno dei tre figli, Bruno, aveva 10 anni e voleva solo giocare a pallone nel cortile sotto casa. Ma quel giorno non ci riusciva: poco prima, al telegiornale, aveva sentito la notizia di un carabiniere ferito. Si chiama “Forte come mio padre” la 30ª puntata di “31 minuti” in onda questa sera alle ore 22 su Rete8. Bruno D’Alfonso, carabiniere (in congedo) come il papà, racconta la sua rincorsa alla verità che dura da 50 anni. L’ha fatto anche in Parlamento e davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Quando si subisce una cosa del genere», dice D’Alfonso, «ogni giorno la mente riporta quell’episodio».

C’è una sua foto da bambino con la medaglia sul petto e sullo sfondo, i carabinieri in alta uniforme: se la ricorda?

«Certo, me la ricordo benissimo. Era il 5 giugno del 1976, un anno dopo il conflitto a fuoco di mio padre, che purtroppo è morto proprio nel giorno della festa dell’Arma dei carabinieri. In quella ricorrenza vengono anche ricordati i caduti e tutti coloro che si sono adoperati con qualche azione di valore».

E un bambino cosa pensa quando perde il padre?

«Un bambino pensa di perdere il punto di riferimento, il faro della sua vita, il supereroe. Per me che stavo crescendo, lui era il punto di riferimento principale e tutti i miei sogni erano riposti in lui».

Quando vedeva suo padre con la divisa cosa pensava?

«Era un orgoglio: ero affascinato dalla divisa, anzi lui mi portava con sé, mi faceva sedere in una postazione dove c’era la macchina da scrivere e quindi io giocavo con i tasti e con la carta di carbone: facevo un po’ di pastrocchi».

Da bambino non pensava che il lavoro di carabiniere fosse rischioso per suo papà?

«Beh, in realtà lui ci aveva già preavvisati perché erano gli anni di piombo e, in televisione, vedevamo sempre quelle scene. Mi ricordo proprio una scena del telegiornale e lui che scherzava con mia madre: per sdrammatizzare la notizia diceva: “Un domani potrebbe succedere anche a me”. Era forse una frase premonitrice. Disse: “Dopo ti daranno qualche medaglia e niente”».

Quando ha deciso che anche lei avrebbe fatto il carabiniere come suo papà?

«Mio papà mi diceva: “Se tu volessi fare da grande questo lavoro non fare il sottufficiale, fai l’ufficiale oppure l’appuntato come faccio io perché il sottufficiale è un ruolo molto impegnativo a livello operativo”. Alla fine, ho fatto il sottufficiale, il contrario di quello che mi aveva detto lui, però l’ho fatto con grande gioia».

A distanza di 50 anni dal 5 giugno del ’75, tre persone sono a processo: come ha fatto lei a far riaprire quel caso?

«È stato difficilissimo, anche perché molte notizie di quei momenti, di quel conflitto a fuoco, erano state come ovattate già dopo sei mesi dal conflitto a fuoco. È un caso particolare che, nella storia, viene ricordato come il conflitto a fuoco in cui è morta Margherita Cagol, non per l’omicidio di Giovanni D’Alfonso, questo perché lei, Margherita Cagol, era la moglie del capo storico delle Brigate Rosse».

Ma una sentenza di condanna, dopo tutto questo tempo, a lei cosa darebbe?

«La sentenza di condanna è solo un obiettivo che mi sono prefissato per onorare la memoria di mio padre, nulla di più. È per onore della giustizia che sto facendo questo: un atto erotico del genere meritava rispetto e onore. Quello che ha fatto mio padre non è semplicemente un atto eroico passivo, nel senso che lui indossava la divisa, è stato colpito da una bomba ed è morto: lui ha avuto una reazione, era già stato ferito dalle bombe e si era nascosto, quindi poteva benissimo fare come altri, e nessuno l’avrebbe mai giudicato per questo; invece, quando ha visto i brigatisti fuggire con le armi in pugno, lui li ha affrontati, è uscito allo scoperto, ha sparato tutti i colpi che aveva ed è stato ferito di nuovo, caduto a terra senza più le munizioni a disposizione, il brigatista che stava lì è tornato indietro e l’ha freddato alla testa, quindi l’ha giustiziato. Questa dinamica che ho scoperto successivamente, per me, è stata una cosa molto forte e ho promesso mio padre che avrei fatto di tutto per scoprire chi fosse stato».

Cosa prova ogni volta che va in udienza?

«Per me è come se il tempo non fosse passato e, quindi, quando vedo questi personaggi, sento i nomi, per me è come ritornare a 50 anni prima. Come se il tempo si fosse fermato: per me tornare in quei luoghi è come tornare ad avere un contatto con mio padre e quindi sono felice perché sento che sto facendo qualcosa per lui».

Invece per quelle persone che sono a processo, questo tempo è passato oppure no?

«Per loro, da quello che ho capito, l’uccisione di un carabiniere è come un morto sul lavoro. Loro sono insensibili. Dopo 50 anni, il maggiore indiziato per l’uccisione di mio padre si è trovato con le spalle al muro, mi ha detto questa frase – “mi dispiace” – ma dopo 50 anni, non posso accettare scuse del genere».

E cosa vede negli occhi di quelle persone che sono accusate di aver ucciso suo padre?

«Non vedo un ravvedimento: non hanno fatto mai pace con il loro proprio passato».

Se potesse dire una cosa a suo padre cosa gli direbbe?

«Gli direi che sto facendo questo per lui e insomma che sono onorato di farlo».

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