Kihlgren: i borghi interni si salvano con il turismo legato a cultura e storia
L’idea vincente dell’imprenditore che ha rilanciato Santo Stefano di Sessanio: «C’era un solo albergo. Oggi esistono 23 strutture di accoglienza, dove dormire»
È finito sulle copertine di riviste patinate e rotocalchi. Su quel "piccolo mondo antico", parafrasando il celebre romanzo di Antonio Fogazzaro, si sono accesi i riflettori della Cnn e della Bbc, ne hanno parlato il New York Times, Le Monde, Forbes, Vanity Fair, Vogue. Un piccolo borgo arroccato sulle montagne abruzzesi, Santo Stefano di Sessanio, in provincia dell'Aquila, salito agli onori delle cronache internazionali.
Preso d'assalto dai turisti stranieri, in ogni periodo dell'anno. Fotografato e ammirato, al pari delle star di Hollywood. Un "miracolo" di illuminata maestria imprenditoriale che ha un nome e un cognome. Quello di Daniele Kihlgren, imprenditore italo-svedese, che ha cullato e realizzato il progetto "Sextantio", trasformando un borgo medievale in rovina in un albergo diffuso di sicuro successo.
Modello di sviluppo per le aree interne del Sud Italia e per l'Appennino.
Quando è scoccata la scintilla?
Un giorno del 1998, girando in sella alla mia moto, una Honda 400, tra i tornanti abruzzesi, sono rimasto incantato dalla visione della skyline di Santo Stefano. Tutto era così silenzioso, affascinante.
È stato amore a prima vista?
Diciamo che ci ho pensato un po' su, ma l'idea continuava a girarmi in testa: restaurare, in modo filologico, un borgo antico quasi deserto, per fare del paese intero un albergo diffuso. Che, poi, non amo definirlo così.
E come?
Un restauro conservativo del patrimonio storico minore che ha riconsegnato, al nostro Paese e all'Abruzzo, un luogo che stava lentamente deperendo, sotto il peso del tempo. Ci ho creduto, ed eccoci qui.
Sì, ma di paesi in Abruzzo, come altrove, ce ne sono tanti. Cosa l'ha affascinata di Santo Stefano?
Ciò che si è sedimentato nei secoli, la classicità, il fascino emozionale natio, affettivo. Un po' come l'emotività nelle poesie di Giovanni Pascoli o la classicità nei versi di Giosuè Carducci.
Lei è un romantico...
Ne ho passate tante nella vita. Un'infanzia non proprio semplice, una madre innamoratissima di me, terzo di tre fratelli. L'adolescenza è stato il momento critico, divorato vivo dalla curiosità. Volevo fare esperienza, prendere a morsi la vita.
Poi, è accaduto qualcosa.
Ho perso un fratello a causa della droga. Quando è morto mi ero appena laureato, il dolore era lancinante. Sono salito in moto e ho vagato a lungo, in giro per l'Abruzzo. Sono arrivato a Santo Stefano, che già conoscevo. Vi ero stato anni prima, ma la visione delle case affastellate, la torre medievale, il gusto antico dove non attecchisce modernità, mi ha folgorato. Ci ho visto il mio progetto.
Quello di un albergo diffuso?
Tutti lo definiscono ormai così. A me non piace: la mia è una battaglia di civiltà, che deve avere un ritorno economico, ma è mossa soprattutto dalla passione. Da tempo, immaginavo di recuperare un borgo di architettura minore, privo di cemento. Proprio quel cemento che ha fatto crescere economicamente la mia famiglia. L’idea era un posto in cui vivere come 80-100 anni fa, con il mobilio antico, i tessuti lavorati a mano, a telaio, come una volta. Le stanze piccole, come le porte e le finestre. La luce che filtra al mattino e al tramonto. È pura poesia. Un luogo dove ritrovare se stessi.
Lei ha creato un modello di sviluppo unico in Italia. Qual è la formula?
Non è solo una destinazione turistica, ma un progetto culturale e storico. L’Italia, che ha come identità primaria quella di essere il Paese del bello, ha cancellato una storia minore, esclusa dal paradigma della classicità o della monumentalità di pregio. Una storia che, se tutelata, evidenzia luoghi di grande suggestione e pregnanza affettiva, che sarebbero altrimenti condannati alla definitiva scomparsa. O, peggio, ad un’ibrida promiscuità.
Ci dica i risultati economici. Anche questo conta...
Beh, quando sono arrivato a Santo Stefano di Sessanio c'era un solo albergo. Oggi esistono 23 strutture di accoglienza, dove dormire. Senza considerare bar, ristoranti e botteghe. Ci sono più partite Iva che abitanti. Il paese, in percentuale, ha avuto uno sviluppo maggiore di Montecarlo o di Manchester dopo la rivoluzione industriale.
Operazione ambiziosa. Chi le ha dato una mano?
Il Comune e la Regione ci sono sempre stati. Hanno creduto nell'idea. L'altro ieri ho accompagnato il presidente della Regione, Marco Marsilio, in visita al borgo. Adesso l'amministrazione sta pensando di abbattere un edificio anni Settanta, l'unico presente e inutilizzato. A Santo Stefano non c'è traccia del XX secolo: è il vero valore aggiunto.
È per questo che parla di modello da esportare?
Sì, è stata una scommessa complessa, ma riuscita. Si fa un gran parlare di tutela e sviluppo delle aree interne. Qualcosa bisogna pur fare. E allora, perché non conservare il costruito, un patrimonio immenso che viene dal passato e rappresenta la nostra storia e la cultura? Secoli e secoli di vissuto.
Sextantio potrebbe essere esportato altrove in Italia?
Da nord a sud. Rappresenta quell'integrità tra costruito storico e paesaggio circostante, come tutti quei paesi costruiti sulla sommità delle colline, magari in pieno Medioevo durante il periodo dell’incastellamento. In alcuni casi aggrappati agli speroni della montagna: un immaginario tanto seduttivo quanto, nella realtà, sistematicamente compromesso dalle politiche urbanistiche del secondo dopo guerra.
Lei ci ha buttato soldi, cuore e anima.
Ormai sono stanco, impigrito. Giro con il mio cane, ma le energie cominciano a mancare. Però, con le paturnie non ho smesso, me lo conceda questo divagare... Ma credo fortemente nel modello identitario. Con un po' di mitomania dico di aver trasformato un piccolo centro in un modello unico, ammirato in tutto il mondo. Finito sulle prime pagine della stampa internazionale. In Italia ci sono dai 3mila ai 6mila borghi abbandonati.
Quindi?
Potrebbero tornare a nuova vita. Patrimoni già vendibili, luoghi soggetti all'abbandono che rinascono grazie a investimenti, turismo. Dove arrivano dall'estero a fare matrimoni, dove regna il fascino del silenzio.
È un appello?
Uno stimolo. Santo Stefano di Sessanio non è solo destinazione turistica. Abbiamo avviato corsi di formazione, incentivato le attività commerciali, anche per dare un'alternativa ai turisti che arrivano d'inverno. Un giorno c'è la neve, un altro esce il sole. E bisogna dare qualcosa da fare.
Mi sta dicendo che arrivano turisti in tutte le stagioni?
Il 50% dei visitatori sono stranieri, c'è gente sempre. In estate come in inverno. E noi ci impegniamo ad accoglierli, con tutta la passione che anima questa impresa. Credo sia una grande battaglia di civiltà e di amore per un passato da riscoprire e far rivivere.
Dice di avere poche energie, ma l'entusiasmo non le manca.
Mi lascio guidare. L’aspetto evocativo della mia scelta è di facile intuizione: conservare un’identità che va dal patrimonio storico e architettonico, al paesaggio, dagli abitanti con i loro usi e costumi, all'unicità del territorio. Nei borghi storici abbandonati, in particolare nella montagna appenninica, di storia ne è passata tanta.
Un'occasione per i giovani, in una società che soffre la carenza di lavoro?
Eccome. I giovani che non vogliono lasciare i loro paesi e quelli che intendono tornare. Stanchi del caos delle metropoli, del traffico, di un'esistenza frenetica: a Roma dai Castelli al centro ci vuole un'ora e mezza di macchina. Il recupero dei borghi è un'opportunità da valutare per gente che ha voglia di lavorare lì.
Il guadagno?
Una vita vera, autentica. Le pare poco?
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