La madre di Jennifer Sterlecchini: «Mia figlia è stata uccisa, basta con la retorica»

Intervista a Fabiola Bacci all’indomani della giornata contro la violenza sulle donne: «Alle ragazze dico di parlare, ripartiamo dal rispetto»
PESCARA. Ha una sorta di corazza, la stessa indossata subito dopo il terribile femminicidio della figlia Jennifer Sterlecchini, morta a 26 anni il 2 dicembre di nove anni fa. Fabiola Bacci è ora doppiamente arrabbiata, perché la lettera di scuse ricevuta dall’assassino Davide Troilo (ex fidanzato della ragazza) non serve a nulla, se non a ricordare i momenti più bui di quella maledetta mattina. E ieri, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, mamma Fabiola preferisce dimenticare quel messaggio inserito in un pezzo di carta, ritenuto «inutile». Il suo pensiero va alle vittime di azioni violente e a tutte le donne, molte anche giovanissime, che non riescono a distinguere «la reale carezza da uno stupido schiaffo, pensando ingenuamente che quello ricevuto sia un semplice gesto d’affetto, dettato dalla gelosia».
Fabiola, lei ha definito la lettera dell’omicida una farsa...
«Esatto, proprio così. Una presa in giro da parte di chi non ha mai motivato realmente quelle coltellate e ora, a distanza di anni, prova a chiedere scusa».
So che non vuole soffermarsi su questo argomento, ma le chiedo: ha intenzione di rispondere?
«Assolutamente no. Cosa dovrei scrivergli?»
Capisco. Magari togliersi un sassolino dalla scarpa...
«Beh, lui ha un figlio. Gli chiederei: perdoneresti mai chi sceglie di eliminare per sempre il sorriso, le lacrime, le gioie di tuo figlio? Io no di sicuro. Non posso farlo e mai succederà».
Quando stavano insieme ha mai notato dei malumori da parte di Jennifer? L’ha vista preoccupata o impaurita?
«Sinceramente no. Solo nell’ultimo periodo, quando ha deciso di lasciarlo, per intraprendere una nuova strada. Era giovane e molto curiosa. Aveva i suoi progetti, i sogni e le ambizioni di tante ragazze della sua età. Evidentemente a lui non stava bene, non ha accettato l’allontanamento di lei, il rifiuto e poi...»
Quanto tempo sono stati insieme?
«Tre anni».
E lui non ha mai alzato un dito fino a quel giorno?
«Non era violento. Credo che le discussioni ci siano state tra loro, ma nulla di particolarmente rilevante. Piccole litigate tra fidanzati, anche perché Jennifer aveva il suo caratterino. Non ci sono state mani alzate o minacce da parte di lui. Penso, però, anche alla luce dei dati sulla violenza e sulle denunce, che riconoscere i segnali sia la cosa più importante, per evitare tragedie. Mi spaventa molto la notizia sulle relazioni tossiche tra ragazzini».
Cosa si sente di consigliare alle giovani donne?
«Anche solo uno stupido schiaffo, dato durante un litigio apparentemente di poco conto, rappresenta un segnale negativo. Qualcosa non va, quindi bisogna confidarsi con un’amica, parlare con la propria madre. Non si deve esitare, perché l’amore non ammette violenza né imposizioni».
Quella mattina come è andata? Jennifer l’ha chiamata per chiederle di accompagnarla a riprendere le sue cose nell’abitazione di via Acquatorbida?
«In realtà già dal 28 novembre mia figlia era tornata a casa da me. La mattina del 2 dicembre siamo andate insieme da lui. Quello che è successo subito dopo lo avete già raccontato: ero a pochi metri di distanza dal luogo del delitto, ma la porta è stata chiusa a chiave e mi è stato impedito di aiutare mia figlia».
Cosa rappresenta per lei la Giornata del 25 novembre?
«Sinceramente sono un po’ stanca della retorica: le panchine rosse, gli eventi, i discorsi degli esperti. Tutto giusto, ma le donne continuano a morire e i numeri non sono affatto confortanti. Bisogna essere più incisivi, soprattutto per aiutare le giovanissime e i giovanissimi a decifrare i pericoli. È necessario far capire ai ragazzi cosa significa “rispetto”. Voglio rivolgermi anche a tutte le mamme, non solo a chi ha perso una figlia per mano di un uomo: parlate tanto con le vostre ragazze, non siate distanti. La vita frenetica e gli impegni quotidiani ci allontanano dai problemi reali, ma il sostegno a chi vogliamo bene è la prima cosa. Per non parlare, poi, dell’utilizzo eccessivo degli smartphone e dei social, che porta a distaccarsi dalla vita reale e dai legami autentici. E la violenza, non solo quella contro le donne, aumenta. Basti pensare alle cosiddette “baby gang”, con ragazzini pronti a emulare i protagonisti delle serie tv o video virali. Viviamo in una società quasi finta. Gli incontri nelle scuole aiutano, ma devono essere organizzati con una frequenza maggiore. Non sono nessuno per giudicare e dare consigli, ma osservo la realtà con il dolore di una madre, che ormai da 9 anni cerca di aggrapparsi ai momenti più belli vissuti con sua figlia e alla sua risata contagiosa».
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