LE COSE CHE NON COLSI
Questo racconto è tra i 15 in gara per il premio John Fante 2013. Oltre al titolo assegnato dalla giuria di qualità, sarà assegnato anche un premio dei lettori. Se vuoi far vincere questo scritto condividilo su Facebook, Twitter o Google+
IL WEB CONTEST Tutti i quindici racconti in finale
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Luglio arrivò e l'estate calò pesantemente. Il solleone mi affogava nei vestiti e per cercare refrigerio avevo cominciato a frequentare il parco dietro la chiesa della Trinità insieme al mio cane. Gli alberi non mancavano e le panchine nemmeno, così mentre Cane poteva scorazzare liberamente io ne approfittavo per leggere beandomi delle ombre rinfrescanti. Ogni tanto lasciavo Steinbeck e Saroyan a guardia di Cane e mi dirigevo verso il chiosco, gestito da una famiglia di cinesi sempre sorridenti, anche se dire che fossero espansivi è un po' come affermare che la Monna Lisa ride a crepapelle. Una domenica mattina misi "Chiedi alla polvere" in tasca, chiamai Cane e feci il mio solito giro. La giornata era talmente afosa che Cane si muoveva al minimo, muso abbassato e lingua di fuori. Arrivati al parco, sbottai. Nemmeno l'ombra poteva salvarci dalla sauna a cielo aperto che era diventata la città. Con le ultime energie legai Cane ad un palo della luce e entrai nel chiosco in cerca di acqua per lui e un gelato per me. Entrai, e vidi un bambino cinese magro magro seduto sul bancone con una merendina a metà strada per la bocca. Sembrava il ritratto della felicità. Il padre invece non sembrava così soddisfatto. Presi il gelato e l'acqua dai rispettivi frigoriferi e chiesi quant'era. Le mie parole rimasero schiacciate sotto il suono delle campane della Trinità che annunciavano la fine della messa. Quando tutto tornò alla normalità ripetei la mia domanda, ma l'uomo sembrava su un altro mondo. Un mondo che non doveva essere poi tanto piacevole, a giudicare dall'espressione con cui mi rispose. Pagai e uscii per portare l'acqua a Cane. Niente è più appagante che dare da bere ad un cane assetato, ve lo posso giurare. Quando l'acqua finì di sgorgare Cane si acquietò e chiuse gli occhioni neri. Io schiacciai la bottiglia e rientrai nel bar in cerca di un cestino e una sedia dove poter leggere tranquillo e beato. Avevo appena finito di fantasticare su Camilla Lopez immersa nel mare notturno di Los Angeles che entrò un'enorme figura vestita di nero. Con quel caldo solo un prete avrebbe potuto infliggersi una punizione così severamente cattolica. Ad ogni passo che faceva verso il bancone, la faccia del barista cambiava colore, raggiungendo tonalità di rosso rabbia che mai avevo visto prima. Il prete accarezzò la testa del bambino, che si mise a piangere. Buttai la faccia nel libro, cercando invano di farmi gli affari miei.
- Yao, perché non fai battezzare tuo figlio? - domandò il prete con una voce da baritono.
- Vattene via.
- Tua moglie avrebbe voluto tanto.
Ebbi quasi un mancamento. Era da un paio di settimane che non vedevo la signora e mi maledissi per il poco tatto mostrato. Quanto sono cafone!
- Mia moglie non c'é più e non conta più. - esclamò, poi abbassò il capo e socchiuse gli occhi. Prese in braccio il bambino e cercò di calmarlo invano. - Ora ti prego di andare, Don Andrea. Spaventi mio figlio.
- È spaventato meno di te. Io voglio solo aiutarvi. - disse allungando il palmo aperto, ricevendo in cambio un muro di silenzio. - Tornerò la settimana prossima. Forse avrò un argomento migliore per convincerti.
Mentre si allontanava dal bancone mi squadrò. Io rimasi a bocca aperta come un bambino sorpreso a rubare la marmellata.
- Tu non sei Nicola, il figlio di Enrico Toscana?
Annuii.
- Ne capisci di libri e di cani, figliolo. Ricorda che anche per te le braccia di Gesù sono aperte.
Annuii nuovamente, incapace di dare un dispiacere a quell'uomo volenteroso. Lo vidi andarsene gobbo e, poco dopo, uscii anch'io.
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