Montesilvano

L’intervista a Di Cosimo, il principe della logistica: «L’automazione libera l’uomo»

24 Ottobre 2025

Il presidente dell’azienda Ceteas di Montesilvano, leader nazionale : «La tecnologia non ruba posti di lavoro, dietro ogni macchina ci sarà sempre una persona che pensa. E che deve avere una visione»

Dottor Di Cosimo, la sua creatura, la Ceteas, si occupa di movimentazione, elevazione e distribuzione: proviamo a spiegare ad un comune mortale corsa fa la sua società?

(Mi guarda, sospira, sorride) Io di solito sono una persona concreta e pragmatica... Ma per una volta, anche per rendere più interessante questa intervista, se volessi essere ambizioso dovrei dirle che mi occupo di corpi, e quindi inevitabilmente di anime.

In effetti sembra di sentire Papa Francesco, più che un super manager della logistica.

Non raccolgo la provocazione. Lei sa che da bambino ho studiato in seminario: ma in questo momento sto parlando da imprenditore.

Allora mi spieghi meglio.

Ha carta e penna?

Certo. Voi nel vostro settore siete il primo gruppo italiano. E avete sede in Abruzzo.

Proviamo a dirla così: tutto quello che sta su qualsiasi scaffale, ogni merce che lei possa immaginare, dal dentifricio con cui si lava i denti la mattina, alla pasta che mangia a pranzo, ai suoi vestiti, ai mobili della camera da letto in cui dorme la sera, prima o poi passa per le macchine che vendiamo noi.

Elevatori, carrelli meccanizzati, muletti, furgoni….

Esatto, tutto questo. Le merci oggi possono girare il mondo, attraversare gli oceani chiuse nei container a costi relativamente ridicoli, rispetto al passato. Ma alla fine di questo ciclo sa cosa succede?

No.

Diventano sempre una forma perfetta per il trasporto, un pallet pieno di scatole di cartone, che parte da un centro di distribuzione e arriva in un centro vendita. E sa cosa succede lì?

Il contenuto delle scatole finisce sugli scaffali.

Sì, certo. Ma ci arriva solo perché alla fine della catena c’è sempre un “picker”.

Cos’è? Nei romanzi di Steinbeck erano i mitici raccoglitori di frutta in lotta per i loro diritti.

Esatto. Il raccoglitore dei tempi moderni è il picker dei colli di cartone: colui che entra in gioco dove si ferma il viaggio dei nostri mezzi meccanici. E che fatica.

Per fare l’ultimo miglio dal magazzino e dal retrobottega, fino allo scaffale, non ci sono ancora macchine che posano sostituire l’uomo.

Non le abbiamo ancora inventate: solleviamo interi bancali, merci pesantissime, enormi bobine di carta, partite di merci che riempiono gli autoarticolati, ma alla fine del viaggio c’è sempre un pallet da cui qualcuno scarica un collo di cartone da venti chili. A mano. E io non ci dormo la notte.

Perché?

Mi chiedo quando riusciremo ad abbattere quell’ultimo muro. Quello sforzo umano che io chiamo così: l’equazione della fatica nei tempi moderni.

È una equazione peso/tempo, giusto?

Oh sì! Segni questi dati e calcoliamola insieme: 20 chili a collo, per 120 colli all’ora. Un picker lavora 8 ore al giorno da contratto. E in un’ora mangia o si riposa. Diciamo sette ore al giorno sono solo lavoro fisico.

Quindi 20 chili, per 120 colli/ora, per sette ore. Giusto?

E abbiamo ciò che solleva in un giorno. Immaginiamo che se gli va bene lavora 22 giorni al mese, e che lo faccia per 10 mesi all’anno. Per 30 o 40 anni. Che somma le esce fuori?

184mila chili: possibile?

Ecco: alla fine di catene di distribuzione che attraversano l’Italia e il mondo, meccanizzate e industriali, c’è sempre una schiena che solleva 184mila chili l’anno.

E lei dice che non ci dorme?

Perché il mio lavoro è trasportare quei pesi: dunque se Oppenehimer non dormiva per aver inventato la bomba atomica, io posso restare sveglio se penso a quelle schiene, a quelle rotule, quelle braccia, quelle vertebre, quei corpi.

Perché?

Perché so cosa sopporteranno. Fatica, artriti, spine dorsali sovraccariche che in una vita lavorativa portano sulle spalle almeno 7milioni di chili. Io, a settant’anni, mi pongo una domanda semplice: come possiamo con la tecnologia ridurre quei pesi?

Neanche i politici sono così ambiziosi, ormai.

Invece dovrebbero. Un picker non può andare in pensione a settant’anni vissuti e sette milioni di chili caricati. Io come uomo e come imprenditore dell’innovazione, quando sono stanco o distratto dai miei obiettivi, recito dentro di me quell’equazione della fatica e ritorno subito lucido.

Che risultato ne trae?

(Ride) Che sapendo da dove sono partito nell’Abruzzo agricolo anni Cinquanta che le racconterò, e vedendo dove sono arrivato, in questo mondo globalizzato, capisco essere stato un uomo molto fortunato.

Sono stato due volte nella sede centrale di Ceteas, perché – per il 45esimo compleanno dell’azienda – volevamo raccontare ai nostri lettori una delle imprese più importanti, ma meno visibili al pubblico di questo nostro territorio. Avevo conosciuto allora Antonio Di Cosimo, ed ero rimasto colpito dal suo eloquio minimale: grandi volumi e numeri vertiginosi, raccontati sempre con un tono di voce bassissimo e poche parole.

Un giorno, mentre seduti intorno ad un tavolo, nella sala caffè (è costruita come un bar) della sua azienda sono riuscito a farlo parlare di più, mi sono reso conto che la sua biografia sembrava il romanzo di qualche narratore realista, un Silone del mondo tecnologico. E siccome le vite di chi attraversa le rivoluzioni tecnologiche dall’inizio alla fine ci insegnano sempre qualcosa, ieri sono tornato a Montesilvano, per fargliela raccontare di nuovo, e regalarla come una parabola ai lettori del Centro. Eccola.

Partiamo da suo padre?

Si chiamava Olindo: nato a Massa d’Albe, nel cuore della Marsica, nel lontano 1922. Figlio di un contadino, pastore. Lui da bambino andava a pascolare le mucche, poi andava a scuola, poi usciva e tornava a pascolare le mucche. Le sue elementari.

Altro che libro Cuore. E sua madre?

Gianna detta Gioia. Il papà di Gianna, mio nonno, era andato in America a scavare il carbone. Aveva avuto fortuna, era tornato. Ed era diventato benestante perché aveva comprato dei terreni.

Casalinga?

Mi pare riduttivo. Con la mia esperienza oggi dovrei dire: era l’amministratore delegato della famiglia. Gestiva tutto, a partire dalle nostre finanze. Fino all’ultima lira.

E fu lei a darle la notizia che ha riempito di malinconia la sua infanzia, ma che con il senno di poi ha cambiato in meglio la sua vita.

Era la fine dell’estate, mamma mi disse solo: “Abbiamo deciso che tu andrai a studiare in seminario”. Avevo dieci anni. Il primo ottobre partii per Roma. Potevo tornare solo ad agosto, per le vacanze.

Lo aveva deciso mamma Gioia o suo padre Olindo?

Non lo sapevamo neanche loro. Anni dopo ho capito che il vero regista dell’operazione era mio zio Olimpio: chierico, all’epoca, prossimo a diventare prete.

Già la partenza fu un dramma, per lei.

L’autostrada non esisteva ancora. In realtà per me, all’inizio del 1960, non esistevano neanche le macchine. Quattro ore di viaggio tutta curve a bordo di una Lancia Appia con gli sportelli controvento.

Il tragitto?

La vecchia Tiburtina: Tagliacozzo, Pietrasecca, Carsoli, Castel Madama Tivoli. Poi Roma. Non riuscivo neanche a bere.

Il primo di ottobre del 1963 Lei arriva in via Alessandro Severo 52, ospite seminarista del collegio dei Paolini. Prima reazione?

La fuga. Avevo visto delle persone nere, per la prima volta in vita mia.

E come reagisce?

Terrore. Scappo fuori. Mi rincorre l’usciere, molto simpatico che mi dice: “Non ti preoccupare: sono uomini come noi, te li faccio conoscere”.

Ah ah ah. I Paolini, ordine di tipografi e di editori.

E infatti appena arrivato mi misero a fare il correttore di bozze.

A dieci anni?

Grande palestra. In quella scuola studiava il mio amico Boleo, poi diventato alto dirigente della banca centrale Europea. Tanti futuri professionisti.

Prima impressione di quella Roma pasoliniana?

Il terrore. Immagini che al paese il mio monte Velino era il mio Polo Nord, la montagna di Pescara, il mare... mi orientavo così. A Roma che monti vedi? Nulla. Mi sentivo cieco.

Non era l’Ottocento.

Mio padre se chiedevo che ora è? Guardava le ombre del sole. Azzeccava al minuto.

Ma c’erano anche da voi la radio e la Tv.

Mai vista una tv nel mio Abruzzo. Ma neanche una radio. A cena mangiavo con le candele, non avevamo la corrente elettrica. Non c’era l’acqua corrente!

Come racconta la Di Pietrantonio.

Ma è così. L’acqua preda alla fonte con il cavallo e il bidone di plastica da due quintali.

E per lavarsi?

D’inverno rompevi il ghiaccio con un martello, ti sciacquavi con l’acqua gelida e correvi a scuola.

Quindi il collegio fu un salto evolutivo?

In quattro ore di viaggio avevo cambiato secolo.

Cioè?

Passato il primo choc: riscaldamento, asciugamani, doccia. Mensa. Ti curavano i denti!

Mai visto un dentista prima?

Non esisteva il concetto: tutti i grandi erano senza denti.

Altre scoperte?

Vidi al cinema Quo Vadis. Rimasi sconvolto.

Perché?

Non immaginavo gli effetti speciali. Sangue da tutte le parti. Chiedevo: ma l’attore muore? Vale la pena per un film?

Oltre la scuola il lavoro.

A undici anni legaturista, brossurista, linitypista. Ancora oggi potrei fare un libro.

E poi?

Colori, piombo, macchina taglia carta. Una meraviglia.

E la nostalgia?

Terribile. Mi chiedevo: “siamo tre fratelli, perché solo io”. La vedevo come una condanna, era una fortuna.

La mancanza più grande?

La famiglia. Una volta ogni sei mesi vedevo mia madre, che veniva da me: e solo un mese a casa. Soffrii per non aver visto il matrimonio di mia sorella.

Come mai?

I sacerdoti non mi diedero il permesso.

Parliamo delle fortune?

Alla fine delle medie conoscevo già latino e inglese.

Negli anni Sessanta!

Mi è servito per tutta la vita sapere l’inglese e parlarlo bene: con un filippino mio amico, in seminario, parlavo in lingua. Si chiamava Josephine.

E poi?

Il rigore. Ci maturavamo da privatisti, dando tutte le materie: e non venivano visti bene. Seminaristi.

Mai pensato di fare il prete?

Noooo! Avevo già le mie passioni, non avrei mai potuto rinunciare alle donne.

È vero che lascia il seminario per una minigonna?

Ehhhhhhh…. Eravamo andati a trovare Paolo VI, ricevuti in udienza. Era il 1969…

E che c’entra il boom delle minigonne?

Al semaforo mi passa affianco una bella ragazza, con una gonna cortissima alla moda, scamosciata, e gli occhi mi si incollano lì!

Poco male.

La sera il sacerdote chiama me e un mio compagno, altrettanto colpito dalla… visione. E mi dice: “Cosa avete fatto?”.

E lei?

Lo guardo: “Nulla. Chiama mia madre: torno al paese”.

Il paese era cambiato.

Molto. L’elettricità. Il bagno in casa cambiava la vita.

E poi?

Studio elettrotecnica ad Avezzano. Mi ritrovo a montare impianti nelle case.

Andava bene?

Mio padre guadagnava 170 mila lire: io 500! Avevo sempre la mano ferita per le martellate alle canne di plastica dove correvano i fili.

Come era quel mondo?

Semplice. Due sole auto. Una era di don Guido Pace, zio del sindaco di Pescara, che possedeva quasi tutto e comandava tutto il paese.

E l’altra?

Del tabaccaio, che aveva la Fiat Giardiniera per le merci.

Svolta nella vita.

Al quarto anno la preside chiama tre di noi: “L’ingegner Rubeo vuole i migliori della scuola”.

Era orgoglioso, no?

No. Il metro era la sopravvivenza, non la gratificazione. L’ingegnere era l'unico che costruiva capannoni ad Avezzano, lavoravo moltissimo. Guadagnavo bene e davo tutto a mamma.

Finché?

Un giorno Rubeo mi commissiona un progetto di impianto e mi dice: “Vai in Iran a montarlo?”

E lei corre, immagino.

Gli rispondo di no: i materiali non erano quelli che avevo progettato. Mi sarei sentito un imbroglione.

L’intransigenza dell’ex seminarista paolino?

Il culo. Chi andò al posto mio fu arrestato, e restituito solo tre anni dopo!

Altro salto.

Mio fratello lavorava alla Standa di Avezzano. Era arrivata la Cassa del Mezzogiorno. Giravano soldi.

E quindi?

Mi fa: “Nostro zio Nicola vuole dirti una cosa”. Lo zio aveva preso l’appalto di presse carrelli elevatori per tutte le Standa d’Abruzzo.

Era un tipo da boom economico.

Lavorava all’officina delle Fs a Roma. Ma gli conveniva “pagare” il suo lavoro ai colleghi, perché lo facessero loro.

A che fine?

Usciva e andava a fare le manutenzioni della Standa. Finché non lo beccarono.

Ah ah ah. Però lo zio, il destino e la Standa propiziarono l’incontro della sua vita.

Per la prima volta ho visto una carrello elevatore! Cambia la vita.

Come poteva ripararlo?

Era facile per me capire come funzionava: con le resistenze. Tecnicamente era simile ad un tostapane. Infatti potevi rischiare di finire arrostito.

E me lo dice così tranquillo?

Era un OMe8 e ci sembrava il futuro: non avevamo la cultura della sicurezza. La macchina valeva più dell’uomo. Se qualcuno restava secco si diceva: “Ehhhhh… È stato sfortunato”.

Mentre oggi?

Questo è il nostro lavoro. Abbiamo elaborato tutti i possibili sistemi per ridurre il rischio. Pensi che per chi lavora in mezzo ai carrelli automatizzati, abbiamo un sistema di elaborazione della frequenza che previene L’impatto.

Ma può sbagliare?

Se mai accadesse l’uomo lavora con un tag che ferma tutte le macchine.

Addirittura?

Per fortuna la sicurezza comanda su tutto.

Ma rallenta la produzione?

Dipende. Per me no. E ai clienti spiego: “In caso di incidente se ti va bene ti chiudono uno stabilimento. Ma se ti va male arrestano più di una persona”. Cosa conviene?

Il Tag.

Esatto.

Torniamo al lavoro.

Ne trova un altro con un imprenditore che, vedendola riparare le macchine, la porta a Roma. È stato il periodo più duro. Ma in cui ho imparato di più.

Duro perché l’imprenditore paga poco. E lei deve pagarsi da dormire.

Mi dice: “Ti pago 150 mila lire al mese. Ma non ti preoccupare C’ho due vecchietti a San Lorenzo. Ti danno una stanza con uso cucina: 120 mila lire.

Le restano solo 30mila lire per vivere.

Già. La fame.

Però…

Era il 1978. Facevo le telefonate, facevo le fatture: dopo cinque sei mesi sapevo tutto di lui e di questo lavoro.

Chiede un aumento.

Lui si era comprato un macchinone, la Fiat 130. Sto viaggiando con lui e stiamo salendo sul salitone di Carsoli. La richiesta lo indispone. Tace.

E poi?

A Magliano de’ Marsi mi fa: “Diecimila lire in più te le do”.

E lei?

Gli rispondo: “È stato un piacere. Il mio impiego con lei finisce qui”. Non l’ho più rivisto.

E cosa impara?

Che non avrei mai fatto il suo errore. Non capire il valore del lavoro.

A casa come la prendono?

Tre parole di mia madre, come un balsamo per me: “Hai fatto bene”.

Trova subito un altro impiego.

Partecipo all’esproprio dei terreni per l’autostrada con la Sara. Una corsa contro il tempo, in due, casa per casa con un dirigente della società. Faccio tutti i lotti da Celano ad Avezzano. E mi pagano 200-300mila lire al mese!

Poi di nuovo il destino.

Incontro un imprenditore Giorgio Bolzoni, che aveva sentito parlare bene di me come tecnico: “Ho la società a Bastia Umbra. Vuoi venire a lavorare con me?

Accetta?

Gli dico: “Ho due richieste: La prima: voglio 800mila lire al mese”.

Ci aveva pensato?

No. Mi è uscita così. Lui sorride: “Mi pare giusto. E l’altra?”. Mi faccio coraggio: “Se sono bravo mi apri una filiale a Pescara?”.

Spericolato. Cosa risponde lui?

Mi guarda e con il suo accento mi fa: “Stai addí sul serio?”. Io: “Sì”. Lui: “Ndemo!”.

Si trasferisce in Umbria?

Proprio sotto lo stabilimento Spiga d’oro. Due anni e mezzo fantastici. Perdendo un taccagno avevo trovato un uomo generoso. Il maestro di una vita.

Esempio?

Quando apriamo in Abruzzo, Bolzoni mette i fidi.

Che anno?

Nel 1979: abbiamo aperto la Ceteas a Silvi Marina. Due società: Ceteco, “co” finale stava per commerciale, e In Ceteas “As” stava per assistenza.

Tutto inizia bene.

Nel 1983 16 miliardi di fatturato! Non mi mancava nulla. Nel 1990 coloro la mia prima casa nel 1991 il capannone dove siamo ora.

Si è montato la testa?

Macché. Tutto quello che guadagnavo -– stipendio a parte – lo tenevo in azienda.

Follia.

Invece sono vivo solo per quello.

Che succede?

Nel 2008, a settembre, volo ad Amburgo per un nuovo tipo di carrello. In America c’era stata la crisi dei mutui subprime. Mi dicono: “Sai che qui in Germania sta arrivando qualche effetto?”. Rimasi quasi stupito.

E poi?

A novembre mi dicono: “Sai che qualche effetto arriverà anche in Italia?”. Mi chiedevo dove. A gennaio tutto inizia in un solo, terribile giorno. Quello in cui il telefono resta muto.

Nessuno chiamava.

Settimane plumbee. Neanche una parola. Poi arrivavano a pioggia i fax dei clienti migliori: “Venitevi a riprendere i carrelli perché non possiamo più permetterci di pagare gli affitti”.

E poi?

Vede questo spiazzo? Era pieno. Un cimitero di carrelli. Ma noi ogni mese avevamo i leasing da pagare. Le macchine ferme si deteriorano. Catastrofe.

E poi?

Le banche che ci avevano fatto credito rivolevano i soldi indietro.

E lei?

Tutti dicevano: “Fallirai, chiudi prima di farti male!”. Avrei dovuto mandare a casa cento dipendenti. Pensai a quel dialogo sulla Fiat 130 e mi dissi: “Mai. Combattiamo!”.

Cosa voleva dire combattere?

Avevamo in banca 3,5 milioni e mezzo di euro. Iniziammo a bruciarli per pagare i leasing e gli stipendi.

E poi?

Ci era rimasto un solo cliente, ma ottimo: la Società italiana vetro, che faceva parabrezza. Oggi è diventata la Pilkington. Aspettavo i loro bonifici con il fiato in gola. Ma era un segnale di speranza. Nel frattempo…

Cosa?

Ho frazionato l’azienda: Servizi, logistica e trasporti e automazione. La mossa che ci ha salvato.

E alla fine?

Ci accordammo con i sindacati. Su cento persone solo 14 se ne andarono. Tuttavia un giorno feci un estratto conto: erano rimasti solo 50mila euro, in cassa. La sera torno a casa pensando. Finiscono questi soldi e chiudo. Che faccio? Che facciamo? Che faranno i miei dipendenti? Crollai nel letto, come sopraffatto.

E poi?

La mattina vado in ufficio pensando ad un discorso di resa.

E poi?

Un suono. Una voce nostra che risponde. Era il telefono che aveva ripreso a squillare. Avevamo vinto. Tutti salvi, insieme.

Ma nel 2022 arriva la pandemia.

A dicembre 2021 mandiamo su Mediaset lo spot della nostra società E-commerce. Tre mesi dopo arriva il lockdown. Diversificarsi ci aveva salvato.

E quella società?

Si chiamava Gilda. È andata benissimo finché Banca Intesa, che era nella compagine, ci ha detto che non ricapitalizzava.

Risultato?

L’unica vittima del Covid è stata Gilda. Noi eravamo vivi. Mi veniva in mente mio padre.

Perché?

Era stato mandato in Russia, nel 1942.

In mezzo alla catastrofe.

Raccontava di essersi salvato solo perché l’onda d’urto di una bomba, esplosa al suo fianco, lo ha mandato in ospedale due giorni prima dell’offensiva di Zukov. Lo portano a Leopoli. Si era chiuso l’accerchiamento. Solo un attimo prima lo avevano rispedito a casa. Vivo per una bomba che stava uccidendolo. Sa cosa mi diceva?

Prega i santi?

No: “Ti devi rassegnare”.

Pessimista?

Al contrario: ottimista disincantato. Vieni salvato anche se non ci speri.

Cosa si porta dentro di questa storia?

Tutto. Oggi il nostro lavoro è progettare e prevenire: statistica, algoritmi intelligenza, macchine.nel nostro mondo, alla fine, ci sono due scuole diverse.

Una americana.

Il Modello Pdci. Iperpragmatico. Lo sintetizzo così: “Metti a norma quello che è già successo”.

E l’altro è giapponese.

Modello Tojota: Kai zen. Nulla è impossibile se si ha una visione. L’idea è: Miglioramento continuo. Traduco così: “Tutto è migliorabile purché misurabile”. Devi lavorare su ciò che non è ancora accaduto.

Un esempio?

Guardi lì: la Agv. Macchina a guida autonoma. Interagisce con tutti i sistemi. È già il futuro.

Ruberanno lavoro agli umani?

No. Tutto ciò che è interazione tecnologica dietro ha un uomo che guida.

E quest’uomo cosa farà?

Molto meglio che sollevare i colli. Tu gli devi dare visione, filosofia. Idee. Ritorneremo a Platone. Anziché cento carrellisti avremo cento filosofi.

Quando parla così le dicono che è matto o che è visionario?

Che sono matto. Ma accetto scommesse. La rivoluzione digitale aiuterà l’uomo.

E la visione? Non mi ha detto che serve una visione?

Eccola. Noi sostituiamo le mani con i cervelli.

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