Pescara, l’amico di Rigante ora dice: Ciarelli non voleva uccidere

Mimmo Nobile scrive dal carcere: quella sera è avvenuta una disgrazia, rom e pescaresi siano uniti
PESCARA. «Massimo voleva solo ferire il mio amico Domenico, altrimenti non avrebbe esploso un colpo solo». Due anni dopo la notte di via Polacchi, quella in cui il tifoso Domenico Rigante è stato ucciso dal rom Massimo Ciarelli – condannato in primo grado a 30 anni di carcere – Mimmo Nobile, uno dei testimoni del delitto, ha deciso di parlare attraverso una lettera inviata dal carcere smussando la volontarietà del gesto del rom, difendendo Ciarelli.
Nobile, capo ultrà del Pescara, 44 anni, si trova in carcere per rapine a banche e a portavalori ma quella notte del 1° maggio 2012, insieme ad altri tifosi del Pescara, era nella casa di via Polacchi in cui piombarono i Ciarelli e in cui Rigante perse la vita a 24 anni. Dopo l’omicidio, e in particolare durante il processo, tra i rom e i tifosi ci fu un periodo di attrito con la rabbia degli ultrà esplosa con sassi contro le case e le macchine dei rom e con l’acme raggiunto durante le udienze in tribunale quando i rom tirarono fuori le mazze e le due “fazioni” vennero separate dalle forze dell’ordine. Nobile, come scrive, dice «di aver riflettuto», chiama Domenico «il mio carissimo amico», definisce il delitto «una disgrazia» smorzando i toni di quello scontro che, nei giorni successivi alla morte di Rigante, animò tifosi e rom: «Su questa tragedia», dice Nobile, «si è cercato di speculare sul fatto che si trattava di rom, ma è certo che anche per loro si è consumata una tragedia. Vorrei che la morte di Domenico non dividesse rom e pescaresi, che si riflettesse senza odio e discriminazione per una convivenza civile».
Ciarelli è stato condannato a 30 anni per omicidio volontario premeditato e i suoi parenti Angelo, Domenico, Antonio e Luigi Ciarelli a 19 anni e 4 mesi per omicidio volontario. Le motivazioni della condanna hanno stabilito la volontarietà di quel gesto perché il giudice scrisse: «Ciarelli, che aveva sempre tenuto sotto tiro dell’arma Rigante, si posizionava a una distanza di 70 centimetri da quest'ultimo, evidenziando in modo evidente le proprie intenzioni delle quali Rigante mostrava di non essersi avveduto». Il rom se la vedrà il 22 gennaio in secondo grado ma, intanto, uno dei testimoni di quella notte ha deciso di rendere la sua versione. «Io conosco bene la tragica vicenda che ha portato alla morte di Domenico», scrive Nobile dal carcere, «la morte di Domenico si trascina dietro un’enorme tragedia familiare, forse più di una. Io non ho intenzione di giustificare quell’atto», prosegue, «ma quella sera si è consumata una disgrazia».
Il giorno successivo il delitto di via Polacchi, Nobile venne interrogato dalla squadra Mobile e non fece nomi ma disse di «non essere in grado di riconoscere in volto gli aggressori di Domenico» e di essere «stato svegliato da un paio di esplosioni e da urla». Nel giorno dell’incidente probatorio in questura otto testimoni su nove, tra cui anche Nobile, riconobbero i volti dei rom. Dopo il delitto «la rabbia ha prevalso», scrive Nobile alludendo al clima di tensione che si era creato in città «ma a distanza di tempo posso dire che ricostruendo l’accaduto sono certo che non c’era volontà di uccidere».
A fare da contraltare alla voce del capo ultrà c’è però quella del giudice per l’udienza preliminare che aveva motivato la condanna del rom così: «Ciarelli si era posizionato a una brevissima distanza dal corpo di Rigante e aveva puntato l’arma sulla zona sopra glutea di Rigante e aveva esploso un colpo». A distanza di anni, Nobile, di quella notte si è fatto un’altra idea e continua a ripetere, nella lettera inviata, «credo non vi fosse intenzione di uccidere anche perché quella sera fu sparato un solo colpo al mio amico Domenico e non posso dimenticare le parole di Massimo Ciarelli, che si rivolse a me dicendomi che per questa volta “era solo una lezione”». «Massimo voleva solo ferire il mio amico e anche a lui che si trova in carcere come me dico di riflettere e di raccontare la verità». Una lettera amara per la famiglia di Rigante, straziata dalla morte di un figlio, parole che i Rigante non hanno voluto commentare.
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