Ricostruzione a Bussi, la tangente è il posto di lavoro alla moglie

L’accusa all’architetto Di Carlo: "Dazioni mascherate con l’assunzione della donna che veniva pagata per non lavorare"

BUSSI. L’assunzione della moglie in una ditta di Assisi (ma senza lavorare) per mascherare le presunte tangenti al marito. È questo un altro retroscena dell’inchiesta sulla ricostruzione a Bussi e Bugnara che chiama in causa Emilio Di Carlo, 54 anni, architetto di Bussi agli arresti domiciliari da 9 giorni. Durante l’interrogatorio di garanzia di mercoledì scorso, Di Carlo, assistito dall’avvocato Marco Spagnuolo, è rimasto in silenzio ma al gip Gianluca Sarandrea ha voluto affidare una dichiarazione spontanea: «Mi professo innocente», ha detto Di Carlo per difendersi dalle accuse che pendono su di lui e su altri 11 indagati tra pubblici ufficiali e tecnici. Di Carlo ha detto anche che parlerà con i magistrati quando avrà a disposizione tutti gli atti dell’indagine. È la stessa posizione di Angelo Merlchiorre, architetto di 61 anni di Bussi che, nel giorno degli interrogatori, si è dimesso dagli incarichi di dirigente dell’ufficio tecnico comunale di Bussi e di capo dell’Ufficio territoriale per la ricostruzione 5.

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Per l’accusa, Di Carlo avrebbe preteso fino al 12% del valore degli appalti ma, per un lavoro da 8 milioni di euro, il tentantivo non sarebbe riuscito per il «fermo rifiuto» di un imprenditore umbro, poi diventato uno dei testimoni. Secondo l’accusa, Di Carlo sarebbe stato pagato anche attraverso gli stipendi dati alla moglie da una società riferibile all’imprenditore di Perugia, Stefano Roscini, 49 anni, anche lui ai domiciliari. Ma, dicono forestale e procura, la moglie di Di Carlo non sarebbe mai andata sul posto di lavoro: a dimostrarlo sarebbe l’incrocio tra gli statini dell’Inps sull’occupazione e una serie di pagamenti con il bancomat che riporterebbero solo a Pescara e non ad Assisi, sede della ditta. La donna, sostengono gli agenti della forestale e le pm Anna Rita Mantini e Mirvana Di Serio, «non si è mai recata sul posto di lavoro poiché nei giorni in cui risulta formalmente occupata ha effettuato quasi sempre dei pagamenti con la carta di credito in esercizi commerciali di Pescara». Poi, per l’accusa, sono «particolarmente significative» le dichiarazione di una dipendente della stessa ditta che avrebbe riferito «di non aver mai visto nè conosciuto la signora». Secondo l’accusa, anche la figlia di Melchiorre sarebbe stata assunta in un’azienda di Catania, riconducibile sempre a Roscini, e pagata per non lavorare: in questo caso, a dimostrarlo sarebbe una telefonata della figlia di Melchiorre con la madre in cui si parlerebbe di una assunzione in una società che «non sa nemmeno dove stia».

In base alle accuse, Di Carlo sarebbe stato un collettore degli appalti degli aggregati di Bussi e non sarebbe stato lui a redigere i progetti ma altri professionisti messi a disposizione da Roscini.

Ora c’è attesa per le prossime decisioni del gip: le difese hanno chiesto la revoca degli arresti domiciliari e il ritorno in libertà degli arrestati.

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