Riforma Nordio, intervista al giudice del tribunale di Pescara: «Si svaluta la magistratura negando la sua pluralità»

Parla Virginia Scalera, giudice e presidente Anm Abruzzo: «Noi impopolari? Il nostro ruolo è applicare la legge, non cerchiamo consenso»
PESCARA. Per la presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) Abruzzo Virginia Scalera, giudice del Tribunale di Pescara, la riforma per la separazione delle carriere dei magistrati è, in estrema sintesi, «una rottura culturale e istituzionale dell’autonomia della magistratura», agli antipodi rispetto alla posizione del deputato FI Nazario Pagano, che il ddl Nordio lo ha promosso parlando di «una riforma a tutela dei cittadini». Le loro posizioni non potrebbero essere più distanti, come quelle che hanno animato la Camera nel giorno dell’approvazione del disegno.
Presidente Scalera, che ne pensa della bagarre in aula per l’approvazione del ddl Nordio?
«Per una riforma costituzionale, auspico sempre che il clima sia il più sereno possibile».
Però a lei questa riforma non piace, vero?
«La leggo come una rottura del modello costituzionale del magistrato».
Ci spieghi meglio.
«Il modello attuale prevede che i magistrati facciano tutti lo stesso concorso, con un periodo di formazione in tutte le funzioni. Insomma, sia requirente che giudicante, sia civile che penale».
Poi?
«Scelgono uno dei due ruoli e nei primi nove anni di carriera possono cambiare funzione, una sola volta, cambiando distretto e spesso regione».
La riforma invece istituisce due concorsi, uno per i requirenti e uno per i giudicanti.
«Vuol dire che pubblico ministero e giudice non sono più parte dello stesso ordine, si formano per vie separate e non possono cambiare funzione».
Cosa c’è di sbagliato?
«Separare i pubblici ministeri dalla cultura della giurisdizione potrebbe legarli pericolosamente alla Polizia Giudiziaria, di cui si corre il rischio che diventino gli avvocati».
Ma ne giova la loro formazione, o no?
«Un magistrato che può formarsi su entrambe le funzioni è evidentemente più preparato. Siamo davanti a una mistificazione della realtà».
Perché?
«Gli operatori di un tribunale hanno fatto studi nelle stesse facoltà, hanno tutti seguito corsi posti-universitari insieme e frequentano gli stessi ambienti. Invece si vuole pensare di rendere il magistrato una sorta di monade, impossibile».
Perché una monade?
«Per un fatto logico. Se si ritiene necessario separare le carriere dei magistrati sul presupposto che si diano ragione tra loro, perché colleghi, allora bisognerebbe separare le carriere dei giudici di primo grado da quelle dei giudici di secondo, della Cassazione, oppure gli uffici gip e gup dal dibattimento».
E l’istituzione di un’Alta Corte è giusta?
«Posta nel modo che si legge nella riforma, è un indebolimento dell’autogoverno della magistratura».
Perché?
«Per due ragioni. La prima è che si sottrae all’organo di autogoverno la vicenda disciplinare, fondamentale nella vita di un magistrato».
E la seconda?
«La composizione imporrebbe la presenza di magistrati molto anziani, in una regressione ad un modello verticistico della magistratura che è opposto a quello voluto dal costituente. E c’è un’altra cosa ancora…».
Allora sono tre. Ci dica.
«Messa in questi termini, pare una scelta punitiva che solo i magistrati ordinari debbano sottostare a una corte del genere. Non mi pare cambi nulla, per esempio, per contabili, tributari, amministrativi…».
Pagano sostiene che la misura sia a tutela dei cittadini.
«Al contrario, le impugnazioni delle decisioni dell’Alta corte finirebbero di nuovo davanti all’Alta corte ma in composizione diversa, non alla Cassazione come avviene normalmente».
E quindi?
«Si rischia di costituire un condizionamento che mina la totale indipendenza del magistrato, la traiettoria è quella di una giurisdizione meno serena. Per i cittadini questo vuol dire meno garanzie».
Va bene, rimane un punto: l’elezione per sorteggio. Qui neppure Pagano era troppo convinto.
«Anche quella è una rottura con l’esperienza dell’autonomia della magistratura…».
Detto in altri termini?
«La nomina per elezione vuol dire dare la possibilità ai colleghi del Consiglio di portare sul tavolo la propria visione, sottoporla agli altri e passare per un meccanismo democratico, elettorale. Così invece si vuole lasciare tutto al caso, come se la magistratura fosse un corpo indistinto di funzionari».
Provoco: non è così?
«No, il Consiglio si occupa anche di questioni che implicano visioni e sensibilità diverse rispetto al ruolo e alle funzioni del giudice».
Chi sostiene la riforma vede in questo aspetto un handicap.
«Noi invece pensiamo che il pluralismo, in questo senso, sia una ricchezza».
Ma queste scuole di pensiero – quelle che Pagano chiama “correnti” – non condizionano i magistrati?
«Nessuno nega che ci siano delle correnti. E che in alcuni casi, in passato, ci siano stati fenomeni di degenerazione correntizia…».
Ma?
«Ma non condizionano in alcun modo i giudici. Affermazioni del genere confermano la natura sanzionatoria della riforma, logica che non ha nulla a che vedere con i problemi della giustizia. Non “buttiamo il bambino con l’acqua sporca”».
Ce la spiega?
«Non mischiamo le cose negative con quelle buone. Tra l’altro sono da poco in vigore le modifiche alle circolari del Csm per gli incarichi direttivi, diamo tempo alle modifiche di sortire il loro effetto…».
Va bene, ma c’è un dato oggettivo che è quello dei sondaggi: i cittadini italiani non hanno fiducia nella giustizia e sono favorevoli alla riforma.
«Senta, noi non dobbiamo essere popolari ma rispondere alla legge».
Ma è proprio la percezione della giustizia a essere in cattiva luce.
«È chiaro che la giustizia italiana soffre da molti anni di problemi legati alla carenza di risorse e organico, che incidono molto sull’efficienza del sistema».
Quindi non vede una crisi della figura del magistrato?
«La sfiducia c’è perché la nostra è una categoria da anni attaccata e delegittimata, a volte in modo scomposto. Però…».
Però?
«Come ho detto, siamo magistrati e non professionisti della comunicazione. Le faccio un esempio».
Prego.
«Noi come magistrati siamo giustamente limitati nell’esternazione sulle vicende giudiziarie, che sono complesse e non dovrebbero essere assoggettate a semplificazioni suggestive».
È un’allusione, vero?
«Pensavo proprio a quell’idea per cui il giudice dà sempre ragione al Pm perché sono colleghi…».
Un punto che non le va giù.
«Perché il processo, civile o penale, è dialettica tra le parti e noi siamo fisiologicamente connessi allo scontento di una parte, un querelante, un imputato. E ci prendiamo la responsabilità di una decisione impopolare».
Insomma, la tribuna mediatica non le piace.
«Non è il nostro lavoro, non cerchiamo consenso».