Saline inquinato, dagli sversamenti abusivi degli anni ’90 all’ex discarica dimenticata

Il fiume senza più gamberi e la promessa di Giorgia Meloni, che nel 2018 disse: «Montesilvano sarà un tema nazionale». Viaggio nella bomba ecologica d’Abruzzo
MONTESILVANO. «Nel fiume Saline, in prossimità di Pescara, erano presenti – e non a caso uso l’imperfetto – alcune specie di gamberi». È il 18 novembre del 1997, ore 13, quando l’allora sostituto procuratore della pretura di Pescara Pasquale Fimiani pronuncia queste parole e racconta a deputati e senatori di un passato che, a Montesilvano, non c’è più, cancellato dagli scarichi abusivi di sostanze tossiche e nocive: Fimiani, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite connesse, parla del Saline e, 28 anni fa, dice già che «la situazione è gravissima».
Da quel giorno, sono passati quasi trent’anni e almeno cinque classi dirigenti, e quel fiume, che sfocia le sue acque all’ombra dei Grandi alberghi di Montesilvano, il polo degli hotel più grande d’Abruzzo con quattromila posti letto, è ancora più inquinato: prima gli sversamenti «abusivi e anomali, pericolosissimi» e poi l’inquinamento proveniente dall’ex discarica di Villa Carmine, a picco sul fiume, sequestrata per la seconda volta in nove anni giovedì scorso in un’inchiesta con sei indagati per il reato di omessa bonifica.
Il Saline nasce dall’unione dei fiumi Fino e Tavo a Congiunti, località di Collecorvino al confine tra Cappelle sul Tavo e Città Sant’Angelo: in questo tratto il fiume è ancora limpido e benedetto, poi attraversa un’area di case, fabbriche e capannoni, raccoglie inquinamento e arriva sporco e maledetto sotto le finestre degli hotel. Gli atti amministrativi e giudiziari raccontano un primato: il Saline è definito anche «discarica lineare più lunga d’Italia» con 40 chilometri di rifiuti interrati. Nel 2008, su 72 campionamenti eseguiti lungo le sponde, l’Arta ha trovato per ben 40 volte rifiuti sepolti fino a 5 metri di profondità. A questa emergenza si aggiunge la bomba ecologica dell’ex discarica. Una collina da 300mila metri cubi di rifiuti nata quasi caso sul finire degli anni Settanta e dismessa a fine anni ’90: i rifiuti sono stati «abbancati sulla nuda terra», così dicono i documenti amministrativi, «senza alcuna impermeabilizzazione». Un po’ al giorno, come se fosse normale accumulare spazzatura sull’argine di un fiume. Il risultato è che, già nel 2006, a valle dell’ex discarica, l’Arta, l’Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente, ha accertato la presenza di percolato, aumento di solfati, notevole aumento di cromo, nichel e sostanze organiche. Nel 2016, l’area è stata sequestrata per l’inquinamento fuori controllo.
Un’emergenza tanto che, nel 2018, in un incontro elettorale di Fratelli d’Italia a Montesilvano per lanciare la candidatura di Marco Marsilio a presidente della Regione Abruzzo, ne parla anche Giorgia Meloni in persona, ormai in ascesa: «Il tema della discarica deve essere un tema nazionale e questo», sono le parole del futuro premier, «è l’unico modo per trovare le risorse, nazionali ed europee, per bonificare la discarica e dare a questo territorio il lustro che merita. E questa è una delle tante risposte che vogliamo dare», e giù con gli applausi. Adesso, per una bonifica non ancora avviata, con il percolato dei rifiuti finito nel fiume come dimostrano le chiazze nere, ci sono sei indagati compresi il vicepresidente della Regione, Emanuele Imprudente della Lega, il consigliere regionale di FdI Nicola Campitelli e il commissario dell’Arap Mario Battaglia.
Nell’attesa di una bonifica promessa e non ancora avviata – sull’ex discarica è stato steso un telo protettivo –, i gamberi citati da Fimiani nella seduta della Commissione d’inchiesta del ’97 non ci sono più. E leggendo le carte di quell’audizione si può capire perché: Fimiani racconta di un’indagine chiamata proprio “Gambero”, partita dal depuratore di Montesilvano e da una serie di «episodi molto dubbi, in particolare incendi in occasione di scarichi particolari, blocchi improvvisi e continui, scarichi cosiddetti anomali, che superavano la potenzialità dell'impianto costringendo ad aprire quest’ultimo e, quindi, a far confluire gli scarichi direttamente nel fiume».
In Commissione, guidata dal deputato Massimo Scalia, uno dei padri dell’ambientalismo italiano, il magistrato prosegue: «Un determinato soggetto effettuava in modo ricorrente trasporti di rifiuti liquidi presso questo impianto, rifiuti liquidi che generalmente erano qualificati come rifiuti speciali, non tossico-nocivi. In realtà, si è scoperto che si trattava di rifiuti altamente pericolosi; il soggetto in questione è risultato essere legato a una organizzazione operante su tutto il territorio nazionale, che aveva individuato nel depuratore di Montesilvano, il luogo in cui effettuare in modo abbastanza tranquillo scarichi abusivi, sia in modo illecito nel depuratore (ovviamente – o, almeno, si presume – con il consenso del gestore del depuratore), sia – ed è questo l'aspetto più grave – illecitamente ed abusivamente nella pubblica fognatura. In sostanza, questi soggetti riescono, attraverso una serie di meccanismi, ad arrivare nella nostra città».
Fimiani parla di «scarichi anomali, altamente pericolosi»: «Tutta la popolazione dislocata nelle aree insistenti nei paraggi del depuratore aveva seri problemi di salute; in particolare, le esalazioni promananti dall’impianto provocavano nausea, vomito ed insonnia. Alcuni cittadini, per la disperazione, sono stati costretti a trasferirsi altrove».
Il magistrato rivela la tecnica per gettare sostanze tossiche nel fiume: «Il soggetto aveva studiato un preciso meccanismo. Egli era titolare di un piazzale, con deposito di camion, al di sotto del quale aveva realizzato un enorme vascone sotterraneo nel quale scaricava abusivamente liquami, rifiuti pericolosi con presenze di benzene, arsenico, toluene, quindi di sostanze molto nocive, immettendole direttamente nella pubblica fognatura». Quei rifiuti arrivavano a Montesilvano dal nord: «Abbiamo ripercorso a ritroso i passaggi posti in essere dal soggetto e abbiamo verificato come costui, in realtà, prelevasse i rifiuti pericolosi sempre nello stesso centro di stoccaggio, situato in Emilia-Romagna. A questo centro di stoccaggio affluivano da diverse zone d'Italia rifiuti pericolosi tossico-nocivi».
Due i modi per truccare le carte: «Il primo meccanismo che abbiamo verificato è quello cosiddetto della triangolazione o giro bolla» e poi «un ulteriore meccanismo che veniva e viene praticato è quella della falsificazione dei certificati». Fimiani parla di «esistenza di un patto scellerato, per cui chi dovrebbe smaltire attesta falsamente di averlo fatto, mentre chi produce sa benissimo che la destinazione è un'altra. La Commissione conoscerà bene i prezzi correnti sul mercato: parliamo di cifre a nove zeri».
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