Se il prefetto decide di far votare in estate

Abbiamo usato la parola “tarocco” e non “broglio”, ora sarà la Procura ad accertare le responsabilità
L’ultima novità è che a Pescara si prospetta un “rivoto” sotto l’ombrellone. Questa mattina probabilmente, apprendendo che in città si potrebbero celebrare le suppletive comunali il 24 e il 25 agosto, qualche lettore che non ha seguito con attenzione gli ultimissimi capitoli della vicenda, potrebbe chiedersi se il prefetto non sia per caso impazzito. In realtà è vero il contrario: il nostro prefetto sta benissimo, è perfettamente lucido, e dopo la sentenza del Tar sul voto per le municipali mostra di voler agire con tempestività e decisione, perché non ci troviamo in una situazione normale, sul piano delle garanzie nel principale cardine del processo democratico: il voto. Per questo motivo anche il nostro giornale torna a spiegare, con nuove notizie il senso e la gravità di quel giudizio che ha terremotato la politica pescarese e (di conseguenza) anche quella abruzzese. Basti pensare che la settimana scorsa vi abbiamo informato del riflesso, altrettanto tempestivo con cui il procuratore Bellelli (e la sua squadra) ha aperto un fascicolo di inchiesta sulle irregolarità accertate dal Tar nello scrutinio. Come in un protocollo democratico di salvaguardia di emergenza, insomma, le istituzioni dello Stato, ognuna per ciò che compete alla sua parte, stanno serrando i ranghi per sanare una ferita che il Tar ha reso visibile, ma che era già presente e nota agli addetti ai lavori.
Adesso occorre chiarire una cosa: prendere atto che il voto del primo turno delle municipali sia stato viziato da decine di episodi oscuri e irregolarità conclamate non riguarda la destra o la sinistra, non favorisce questo o quello. Sia lo sfidante, Carlo Costantini, che il vincitore, Carlo Masci, hanno interesse a che il risultato finale – qualunque sia – non deve essere viziato da ombre. Questa non è la guerra dei due Carli. Questo non è il Var del primo turno. Il voto suppletivo non è la cura miracolosa, che sana ogni ferita (quello accadrà solo con l’inchiesta penale), ma è l’equivalente di un intervento di Pronto soccorso che mette in sicurezza i valori vitali minimi del paziente. Il prefetto Flavio Ferdani, dunque, anche con questa possibile scelta di calendario, ci sta dicendo che gli è arrivato un paziente in barella, in condizioni critiche, e che bisogna usare il defibrillatore.
Qualche lettore potrebbe chiedersi: ma allora è davvero così grave la situazione? Credo che dopo la lettura dell’articolo dei nostri Pietro Lambertini e Gianluca Lettieri a tutti sarà più chiaro perché la risposta è affermativa. Il giorno dopo il pronunciamento del Tar su questo giornale abbiamo usato la parola “tarocco” e non “broglio”. E la differenza è importante: il Tar infatti ci fornisce un elenco minuzioso di tutte le ripetute violazioni della legge, ma - rinviando le carte alla Procura - è come se avesse aggiunto un post scriptum: noi non siamo in grado di dire se c’è stata una regia politica e quale in queste violazioni della legge. Quando usiamo la parola “tarocco”, dunque, è perché sappiamo che c’è stato un imbroglio, ma non sappiamo chi ne è il responsabile e per favorire chi. Tutto questo lo potrà chiarire solo la Procura, con la sua indagine penale.
Ma rispetto alla garanzia del processo democratico basta il tarocco per mandare il paziente cittadino al pronto soccorso. Perché viene messo in discussione il suo diritto più importante.
Ricordo come se fosse ieri che nel giugno del 1989 mi trovai per la prima volta, appena maggiorenne, a fare lo scrutatore in un seggio. L’indennità da scrutatore ammontava a quasi 300mila lire dell’epoca, sono stati i primi soldi guadagnati della mia vita. Mi è tornato in mente in questi giorni un discorso che ci fece, appena chiusi nel seggio, il presidente – si chiamava Romolo – un vecchio ed espertissimo dirigente del Comune: “Se manca una sola scheda e i conti non tornano, vi faccio sputare sangue finché non salta fuori. Se mancano due schede perquisisco tutti, comprese le signore, e senza riguardi. Se ne mancano tre schede o più - concludeva con tono grave - sigillo il seggio e chiamo la forza pubblica”. Grande e sintetica lezione. Io, che pensavo di scrivere un racconto alla Calvino su questa esperienza, rimasi colpito da quella durezza: il processo democratico, il suffragio universale conquistato con tanta fatica in questo Paese (fino al 1946 le donne non votavano) si regge sulla solidità e sulla trasparenza del processo elettorale. Perdere anche una sola scheda significa aprire una falla in una diga. Basta una sola scheda che balla (di qui la definizione geniale di “scheda ballerina”) per rendere possibile l’alterazione del voto, e il meccanismo più antico di controllo del consenso: ogni elettore entra con una scheda già votata ed esce con una scheda da votare, alimentando una perversa catena di Sant’Antonio. Per questo si capisce che la guida di un seggio elettorale è un’arte, che si può paragonare alla conduzione di un’orchestra, esercitata con estro e rigore. Il nostro presidente di seggio (era un vecchio e saggio democristiano, ci rivelò all’ultimo giorno, a giochi fatti) ci impose una serie di rituali apparentemente non essenziali (impilare le schede a mazzi, durante lo scrutinio, sigillare immediatamente le bianche come richiede la procedura, passare ai raggi X le nulle, dare doppia lettura di ogni elettore) che ci fecero chiudere le operazioni con un applauso al momento del verbale di sintesi da trasmettere alla prefettura. Nessun voto mancava, tutti i conti tornavano, finimmo lo scrutinio quando eravamo ancora lucidi, tornammo a casa soddisfatti. Non accadde la stessa cosa nella sezione accanto alla nostra: i conti non tornavano, le due schede in meno non saltavano fuori, arrivò la forza pubblica e il seggio – la mattina dopo – non aveva ancora chiuso le operazioni. Il presidente fu radiato dall’albo, gli scrutatori litigarono a sangue, e tutti maledirono di aver accettato. Trovo incredibile che in questo Paese, in cui si fanno corsi di formazione anche sulla ceretta, nessuna istituzione abbia immaginato di costruire una scuola di cittadinanza elettorale. A Pescara, dunque, se si voterà davvero sotto l’ombrellone, non faremo un piacere alla politica. Lo faremo a noi stessi, perché ombre non ne possono restare, né per i vinti, né per i vincitori. Diceva Winston Churchill: “La democrazia è la peggiore forma di governo, escluse tutte le altre”.