Suicidio assistito, l’intervista al padre di Daniele, Mario Pieroni:«Mio figlio, una vita in gabbia con una mente libera»

13 Giugno 2025

Mario Pieroni: «L’arte e la cultura malgrado la malattia ne hanno preservato la forza interiore. Per la sua poesia non c’erano barriere architettoniche»

Signor Pieroni, la storia di suo figlio Daniele è finita in tutti i tg, in tutte le prime pagine, compresa la nostra. Il primo fine vita in Toscana, grazie alla nuova legge.

«Guardi, Daniele ha fatto tutto da solo: ha preso questa decisione, ha pianificato un percorso, ha contattato lui l’associazione Luca Coscioni, che lo ha assistito. Ha deciso da solo, infine, la data del suo suicidio assistito».

Deve essere stato terribile, per un padre, essere testimone della fine di un figlio.

«Posso essere sincero? Forse solo io e la madre di Daniele sapevamo cosa sono stati davvero, per lui, questi dieci anni e passa di malattia. Bisogna sapere sempre di cosa si parla. Noi sapevamo che la sofferenza di Daniele per il Parkinson era cresciuta sempre di più, nel tempo. Fino a diventare… pazzesca».

Sento che la sua voce è forte, anche quando mi parla del punto di non ritorno del dolore.

«Guardi, io ho 88 anni. Ho amato questo figlio per una vita, l’ho visto fare cose straordinarie, ho avuto la fortuna di poterne essere orgoglioso. Ma lo sono ancora di più per come ha vissuto questo capitolo finale».

Cosa intende? Mi spieghi meglio.

«Daniele è sempre stato un figlio particolare: era sempre ligio ai suoi doveri, ai suoi compiti. Dotato di un enorme senso di responsabilità, in tutto. Ha vissuto i suoi ultimi giorni con grandissima dignità. Non è scontato in quella condizione, sa?».

Quando ha capito che era davvero arrivato alla fine?

«Ci aveva anticipato la sua scelta, come avrà già compreso. Ma ho capito che il tempo era avvenuto solo quando mi ha mandato la sua ultima poesia».

Quella che lei ci ha dato e che pubblichiamo in queste pagine.

«Mi è arrivata via Whatsapp. Un trillo del telefonino. Poi ho letto quel primo verso: “L’ultimo colpo di scure/ si abbatte sulla vita acre”».

E cosa ha pensato?

«Che era finita. Quello per me era un messaggio di un figlio, ma capivo allo stesso tempo che era anche l’addìo di un poeta».

Mario Pieroni, 88 anni, abruzzese doc è un artista importante. È stato un protagonista culturale, gallerista, scopritore di talenti, animatore instancabile della scena pescarese degli anni Settanta e Ottanta. Il ricordo che fa di suo figlio Daniele non è solo asciutto, commovente e poetico: è anche il ricordo di una effervescente stagione culturale pescarese per cui ora non si può che provare nostalgia.

Daniele nella parte finale della sua vita abitava a Trastevere, amava Roma, perché andò a passare gli ultimi anni a Chiusi?

(Un sorriso). «Gliel’ho detto. Era un poeta. Andò in campagna per scegliere il silenzio».

Ha composto versi fino all’ultimo.

«Con uno sforzo sovrumano. Era menomato, non poteva più scrivere da solo».

Non voglio violare il suo pudore, ma facciamo capire perché è arrivato al suicidio assistito.

«La vita in gabbia! Voleva fare qualunque cosa, ma non poteva più farla. La tortura peggiore».

Mi dica una cosa bella, fino all’ultimo.

«Aveva l’affetto e il rispetto di persone che andavano a confrontarsi con lui. Aveva dei bellissimi amici vicini fino alla fine».

Anche lei.

«Un mese fa sono andato a trovarlo, mi ha presentato un amico, Leonardo. Fino all’ultimo si è sforzato per guidare la sua macchina modificata con una frizione automatica. Poi…».

Cosa?

(Pausa). «Ho girato con lui per Chiusi. Le persone che lo incontravano, senza troppi discorsi, si fermavano per abbracciarlo: “Resisti”».

Bello e struggente, immagino.

«Era attaccato ad un cannello 24 ore su 24».

Per cosa?

«Per alimentarsi. Non aveva più lo stomaco. Era assediato da sindromi collaterali. Un corpo come una macchina che collassa. Ma lui: “Papà, vengo a prenderti in macchina”. Capisce?».

E cosa pensava lei?

«Un miracolo. L’arte e la cultura hanno preservato una sua forza integra. Fino all’ultimo verso. Per la sua poesia non c’erano barriere architettoniche».

Bellissimo.

«Tutto questo interesse mediatico intorno alla sua figura mi colpisce. Chiamano tutti. E io forse deludo qualcuno dicendo: si è spento serenamente. Non c’è una storia morbosa, dietro».

È riuscito a gestire il dolore.

«Andava avanti da molto tempo. Era ligio alle necessità dei suoi medicamenti: i servizi sanitari lo venivano a prendere a casa, lo portavano a Firenze. La Toscana civile all’avanguardia».

E poi?

«Ti diceva cose come: “Sto cambiando la Peg”. Ovvero la valvola che collegava allo stomaco, da cui dipendeva la sua vita. Senza un lamento».

È cresciuto nel suo mondo. Da ragazzo aveva visto sfilare nella sua galleria il meglio dell’arte contemporanea.

(Sospiro). «Questo sì! Venivano da me Plini Paolini, Kounellis, Pistoletto, Spalletti. Artisti con cui Daniele ha avuto dialoghi importanti: il pittore Gherard Richter, Franz West, il padre della scultura non convenzionale».

È stato cosmopolita.

«Viaggiava molto, andava in Canada, in Australia... Da giovane era forte, aitante, bello, colto. Aveva tutto».

La vostra storia partiva da Pescara.

«È cresciuto con un grande poeta pescarese, Marco Tornar. Era molto amico di Anna Cascella».

Quali sono i vostri luoghi?

«Avevamo una casa di famiglia, palazzo Pieroni, di fronte alla Standa, attaccato a Corso Vittorio. Daniele viveva a via Trento, vicino a piazza Salotto. Un meraviglioso angolo del nostro centro. Negli anni ha avuto anche un bellissimo legame intellettuale con un critico come Renato Minore».

Lei da ragazzo lavorava nell’azienda di famiglia.

«Sì. All’inizio era una società che faceva arredamenti per alberghi. Poi la trasformai».

Mi dica un luogo che le ricorda Daniele in Abruzzo.

«Gliene dico uno dove c’è Daniele».

Cioè?

«Vorrei che andasse a Loreto Aprutino, a Collecorvino, contrada Rotacesta».

Il vostro parco artistico.

«Un nostro terreno. Quando potevano, chiedevamo ad un artista di fare lì una installazione».

Un posto magico.

«Può dirlo. Aperto giorno e notte, non c’è nessuna guardiana. Va chiunque, nessuno ha mai toccato nulla. Lo chiamiamo No mans land. L’ha costruita una artista come Jona Freedman: sassi bianchi di fiume, 1.000 canne di bambù, 200 alberi di noce».

E poi?

«Voci di poeti registrate: Valentino Zeichen, Daniele».

Quando si sentono?

«Giorno e notte: c’è la sua voce che legge i versi delle sue poesie. Non è bellissimo?».

Ha lasciato molte tracce.

«Se lei va al Maxxi, dove c’è l’archivio della galleria Pieroni, Daniele è molto presente. Ci sono poi lavori conservati alla Fondazione Pescarabruzzo».

Frutti di una stagione di talenti.

«Il mondo in cui lui è cresciuto: una stagione piena di idee, di sperimentazione di avanguardia, Pescara era una città piena di fermento: più che altrove, secondo me perché non c’erano schemi. Gabbie del passato».

Lei era infaticabile.

«Pensi che per una storica mostra di Kounellis, fui accusato da Massimo Riva, che su L’Espresso ci chiamò “provinciarte”. Parlava di me, non delle opere: ha giubbino di seta, i capelli lunghi….».

Trasformò l’azienda di mobili in officina d’avanguardia.

«Bravo! Il mondo delle idee. Di Tullio, Alviani. Arredi scultura: il salotto di Mario Ceroli. Un divano di Scheggi. La Lampada di Laura Grisi».

Vi ispiraste anche a Giacomo Balla.

«Daniele divenne amico delle figlie Elica e Luce, con cui producevamo i suoi mobili futuristi».

Avere un padre così.

«No! Guardi che lui a 18 anni aveva già le sue idee. Ha trovato una sua forza misurandosi con questi artisti».

Di cosa va più orgoglioso ?

«Si è formato da solo trovando in questo mondo le cose che lo interessavano».

Non ha fatto proclami.

«Era molto schivo. Però era contento per come l’associazione Luca Coscioni lo ha sostenuto, con discrezione. La sua è stata una silenziosa lezione civile sul come andarsene».

Vi siete consultati su qualcosa?

«No! Sentivo che era la sua scelta. Era credente: andava a messa, ma non poteva combattere più».

È stato cremato.

«Ho sparso le sue ceneri nel cimitero di Siena al cimitero delle rose. Il suo ultimo desiderio».