«Uccise Rigante per lavare l’umiliazione»
Le motivazioni della condanna di Ciarelli a 30 anni: «Azione pianificata nel dettaglio, Domenico è stato brutalizzato»
PESCARA. «Massimo Ciarelli, piccato per l’umiliazione subìta, ha deciso di vendicarsi pianificando un’azione platealmente ritorsiva»; «Domenico Rigante è stato brutalizzato». Ripercorre le indagini – dalla lite a Pescara vecchia all’omicidio del tifoso del giorno successivo – smonta la difesa del pool formato da Carlo Taormina e Franco Metta e ricorda l’intercettazione in cui il rom si rivolse così alla mamma di Rigante: «Ho ammazzato tuo figlio, qual è il problema?». E’ il giudice per l’udienza preliminare Gianluca Sarandrea a far rivivere, attraverso le 32 pagine di motivazione di condanna dei cinque Ciarelli, quello che accade il 31 maggio 2012 a Pescara vecchia e a spiegare perché Ciarelli è stato condannato a 30 anni di carcere per l’omicidio del giorno successivo in via Polacchi, quello in cui perse la vita il tifoso di 24 anni Rigante.
«Ciarelli ha tenuto in minimo conto la vita delle persone». Ciarelli voleva uccidere? Sì, per il giudice Sarandrea che commenta anche che il rom, richiuso in carcere dal 5 maggio 2012 dopo essere stato arrestato dagli uomini della Squadra Mobile di Pierfrancesco Muriana, «ha mostrato di tenere in minimo conto la vita delle persone di cui voleva vendicarsi». In quella casa in via Polacchi il rom era andato, insieme ai suoi parenti Angelo, Domenico, Antonio e Luigi Ciarelli, condannati a 19 anni e 4 mesi, per «realizzare la programmata vendetta e la certezza che tale azione», prosegue Sarandrea, «avrebbe avuto buon esito è che gli imputati non hanno adottato nessuna forma di cautela». «Un’azione pianificata», la definisce ancora il giudice, «per vendicarsi per l’umiliazione subita».
«Omicidio per vendetta». E’ in questo momento che Sarandrea fa un passo indietro e ricostruisce quella che Ciarelli ha definito «la bruciante umiliazione». A Pescara vecchia, nella sera tra il 30 e il 1° maggio 2012, Ciarelli sarebbe stato aggredito e rapinato da venti persone tra cui anche uno dei “gemelloni”: Antonio Rigante, fratello gemello della vittima.
«Azione esemplare per riaffermare la sua caratura criminale». Sui motivi del diverbio non c’è certezza, illustra il giudice: o per debiti pregressi e per un risentimento covato da Rigante per l’ingiusta carcerazione di un suo amico di cui riteneva responsabile Ciarelli». E’ dopo essere stato «pestato» che il rom, «piccato per l’umiliazione subìta decide di vendicarsi», annota Sarandrea, «un piano da realizzare che avrebbe dovuto sfociare in un’azione esemplare anche per riaffermare la propria caratura criminale offuscata dall’aggressione subìta da Rigante».
E’ il rom di 29 anni, sempre secondo le motivazioni, a «svolgere il ruolo centrale», a «organizzare la spedizione» e a piombare in piazza dei Grue a bordo di una Fiat 500 insieme ad Angelo e ad Antonio mentre Luigi e Domenico si erano mossi su uno scooter. I cinque sapevano dove si trovavano i “Gemelloni”, ricorda il giudice, e irrompono nella casa di un tifoso in via Polacchi alla ricerca «degli obiettivi» rappresentati «indifferentemente dai gemelli Antonio e Domenico». Massimo scende dall’auto impugnando una pistola «con cui esplode due colpi» diretti ad altre due persone che riescono a fuggire e poi, insieme agli altri Ciarelli, irrompe nella casa.
«Volontà di uccidere». Nella fuga Domenico Rigante si nasconde sotto al tavolo e viene «brutalizzato», pestato con il casco fino a quando, nonostante il giovane implorasse di avere una figlia di pochi mesi, «Ciarelli spara puntando l’arma sulla zona sopra glutea e provocandone, poco dopo, la morte». Commenta ancora il giudice: «La modalità dell’aggressione denota la piena coscienza e volontà dell’imputato di realizzare, quantomeno in termini alternativi, il decesso di Rigante». Se Massimo è il rom che è stato condannato con l’accusa di omicidio volontario premeditato, i suoi parenti sono stati condannati per omicidio volontario perché «hanno condiviso le motivazione di Ciarelli».
«Non c’è stato razzismo». Nel corso del suo esame il rom aveva raccontato che, al momento di denunciare in questura l’aggressione subìta a Pescara vecchia, era stato trattato con sufficienza dalla polizia che invece aveva solo detto al rom di portare il referto medico. «Non c’è la prova di una deriva razzistica», si legge nelle motivazioni, «né di un atteggiamento omissivo da parte del personale della questura che si è limitato a rimandare al giorno seguente la formalizzazione della querela consentendo a Ciarelli di corredare il suo atto». Nel corso del suo esame, Ciarelli, oltre a gridare al razzismo, aveva anche dato una versione reputata «incoerente e non veritiera». In aula, infatti, Ciarelli – come ricorda la sentenza – aveva detto che quel «colpo era partito inavvertitamente», mentre per il giudice «l’azione è stata pianificata al dettaglio».
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