Era duro, arcigno e spietato: quando Chinellato praticava l’arte di marcare le punte

Amarcord, il pallone dell’altro secolo. L’ex difensore degli anni Settanta e Ottanta racconta il calcio del passato: dal vivaio della Juve al Pescara, le scelte di Moggi e l’infortunio con Vialli. (Nella foto, Eusebio Di Francesco e Giacomo Chinellato)
Un tempo l’Italia produceva fior di portiere e difensori. Marcatori arcigni e tenaci come Giacomo Chinellato da Fossalta di Piave, in provincia di Venezia. Uno che nel calcio degli anni Settanta e Ottanta ha messo insieme oltre 300 partite tra serie A e B. Uno che ha vissuto il calcio in bianco e nero. E che oggi a 70 anni si gode la pensione a Pescara, nella città che ha scelto per vivere dopo che ha smesso di giocare e ha appeso le scarpe al chiodo.
«Nessun paragone», premette, «il calcio di oggi è più veloce e potente. Non c’è partita. Oggi ci si allena di più e meglio. Oggi ci sono più attrezzature, più professionisti specializzati che curano i dettagli. Ai miei tempi c’era un allenatore, un vice e - quando andava bene - anche un preparatore. Oggi ci sono staff con almeno cinque-sei persone molto qualificate. Senza contare che la tecnologia ha fatto passi da gigante». Un pensiero alla Nazionale. «Oggi fai cinque-sei partite buone e ti chiamano in Nazionale, prima se non avevi duecento presenze in serie A dove ti presentavi?».
Detto ciò, non ci sono più i portieri e i difensori di un tempo in Italia. «Beh, qualche eccezione come Bastoni c’è, ma in linea di massima il nostro calcio non produce marcatori come un tempo. Prima eravamo dei maestri, oggi no, perché, a mio avviso, non ci sono buoni maestri nei settori giovanili. Non si insegna a marcare l’avversario. Lo devi sentire l’attaccante, lo devi braccare e toccare. Sugli angoli una piccola spinta per mandarlo fuori tempo. Non lo prendo io il pallone, ma nemmeno tu attaccante». Questo fino a quando non sono arrivate le telecamere e, soprattutto, il Var. «Certo, ma resta il fatto che non sappiamo più marcare gli avversari. Questo dall’avvento della zona. Ma per fare bene la zona devi saper prima marcare, lo diceva Liedholm. Esco pazzo quando vedo le marcature in area di rigore sui calci d’angolo. Dov’è il contatto fisico?». Beh, Giacomo Chinellato se ne intende, era uno dei marcatori più temuti dell’epoca. «Diciamo che mi facevo valere e mi facevo anche rispettare». Duro, deciso e arcigno.
Io e la mia gioventù. E dire che originariamente era una mezzala. «Sono veneziano, di Fossalta di Piave, 4mila abitanti. Mi sono formato in parrocchia. Un giorno mancava un difensore e il mio tecnico, Righetti, mi invitò a indietreggiare».
Il salto alla Juventus, anni Settanta. «C’era un ds della zona, Silvestri, che aveva contatti con la Juve. Ogni anno mandava un paio di ragazzi a Torino». Eccolo nel settore giovanile bianconero. «C’erano ragazzi di talento come Paolo Rossi, Luciano Marangon, Luciano Miani e Nicola Zanone. Il giovedì veniva Vycpalek (lo zio di Zeman, ndr) e chiamava un paio di giovani per fare la partitella di metà settimana con la prima squadra. Ricordo ancora oggi una formazione con Piloni in porta, Spinosi e Marchetti terzini, Salvatore e Morini libero e stopper, Furino, Haller e Capello a centrocampo, in avanti Causio, Anastasi e Bettega».
Il debutto in serie A il 23 marzo in Cesena-Varese 1-1. «C’era Luciano Moggi a quei tempi nella Juve. E lui mi mandò a Varese, bei ricordi». Lì è rimasto fino al novembre del 1976. «Nel frattempo Moggi era andato alla Roma e s’era fatto male Francesco Rocca, s’era rotto il ginocchio. E Moggi mi ha preso per sostituirlo». C’era Nils Liedholm in panchina. «Tre anni spettacolari, perché essere un giocatore della Roma è speciale. Ancora oggi mi vengono i brividi quando vado all’Olimpico. L’inno di Venditti è da pelle d’oca, ti dà una carica particolare. È a Roma con Liedholm che il mio modo di giocare cambia. Mi sgrezza. Non solo marcatura, comincio a calciare di sinistro, mi propongo in avanti e contro il Milan - marcavo Rivera - sono riuscito anche a fare gol».
Io e l’Abruzzo. Ed eccoci al Pescara, neopromosso in A. Estate del 1979. «È stato un caso, perché a Pescara doveva venire Spinosi, ma Luciano ha rifiutato. E Moggi venne da me: “Vai tu a Pescara in prestito, poi ti riprendo a Roma”». Moggi non lo ha riscattato e Chinellato è rimasto due anni in riva all’Adriatico. «Una retrocessione dalla A alla B e un buon campionato cadetto con Agroppi in panchina». Da Pescara a Cava de’ Tirreni. «Un anno con Santin allenatore, sono stato bene». E poi Catania. «Bella esperienza. C’era Gianni Di Marzio allenatore. Una promozione in serie A. Marcai Gianluca Vialli quando era ancora alla Cremonese. Un giovane Vialli. Lo marcai negli spareggi a tre per la promozione. Mamma mia che squadra quel Catania!». Già Vialli. «Andai in anticipo, lui mi cadde addosso e mi ruppi i legamenti del ginocchio. A distanza di anni, attraverso un amico in comune, lo risentii al telefono prima che morisse. Ridemmo e scherzammo». Sono passati decenni. «Il pallone è stato la mia vita, certo che lo seguo in televisione. Ora vanno a mille all’ora». Ma ora non ci sono i giocatori di un tempo: Zico, Boniek, Boninsegna. «Li ho marcati tutti. Mi facevo valere con gli attaccanti, anche perché se non picchiavi tu, ci pensavano gli altri a menarti. Il più rognoso era Chinaglia, mi dava le testate. Non c’era il Var e ci si menava». Da Catania a Cagliari nel 1984. «Mi ha voluto Ventura (il tecnico poi diventato ct della Nazionale, ndr). Io a Cagliari e Maggiora a Catania. Ero amico con Maggiora, eravamo insieme alla Juve e al Varese».
La pagina più dolorosa. In Sardegna si chiude la carriera di Chinellato. Un paio di anni e poi un buco nero di cui il diretto interessato preferisce non parlare. Continuerà a dare calci al pallone tra i dilettanti in Abruzzo, a Sant’Egidio alla Vibrata e Atessa chiudendo l’album del calcio giocato. L’ultimo flash. «L’attaccante più forte? Tanti, ma c’era Ezio Sella della Fiorentina che correva sempre, non si fermava mai. Un giorno stavamo correndo senza palla e lo colpii con un gomito, mi vide l’assistente e beccai quattro giornate di squalifica». Una volta smesso di giocare ecco la scelta di stabilirsi a Pescara. «Qui si sta bene, si vive bene». Ma con il calcio, poi, poca gloria («ho fatto il secondo a Logozzo a Francavilla e a Nobili a Fermo») e una scelta, più o meno obbligata: tanti dilettanti e settore giovanile («ho lavorato con il compianto Flavio Bottarini») fino all’Atletico Francavilla, l’ultima società con cui ha lavorato con i giovani. E poi il calcio in televisione: «Da piccolo tifavo Juve perché impazzivo per Sivori. E un po’ mi è rimasta la passione. Ma la Roma è la Roma. L’inno di Venditti mi fa commuovere ancora oggi». Anche se il calcio che «più mi piace lo gioca l’Inter. Quando è in salute ha una marcia in più».
L’aspetto economico. Un calciatore di medio calibro degli anni Settanta-Ottanta può vivere di rendita? «No, non si vive di rendita. I miei coetanei hanno lavorato una volta appese le scarpe al chiodo. Anch’io ho lavorato. Ma ho messo qualche soldo da parte, ho fatto degli investimenti che hanno fruttato. E non mi posso lamentare oggi. Certo, poi dipende dal tenore di vita che ognuno si dà».
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