Calcio

Ferrante: da Falcao a Zeman, i sogni di gloria infranti per colpa di un infortunio

3 Novembre 2025

Dagli inizi a Lettomanoppello fino alla stagione in Irpinia alla corte del patron Sibilia passando per gli anni della scalata a Francavilla: ecco il racconto dell’ex centrocampista, classe 1958. (Nella foto, Guglielmo Ferrante con la maglia del Foggia)

PESCARA. Un Tardelli made in Abruzzo, ecco chi era Guglielmo Ferrante da Lettomanoppello. Un centrocampista di lotta e di governo, un mediano capace di marcare il fantasista avversario e di reggere il reparto correndo per due oppure una mezzala in grado di inserirsi in attacco. All’inizio degli anni Ottanta era un emergente, un giocatore arrivato in serie A e capace di restarci. Era all’Avellino di Luis Vinicio con il pescarese Claudio Tobia allenatore in seconda. La data che Guglielmo Ferrante non dimenticherà mai è il 3 gennaio 1982: l’Avellino vince a Como con rete del brasiliano Juary Jorge dos Santos Filho - meglio conosciuto come Juary - e lui entra nella ripresa al posto di Piga. Un quarto d’ora di gioco, il brasiliano segna e lui si fa male. Un grave infortunio, salta un legamento della caviglia. «Rimasi in campo fino alla fine, ma in pratica camminavo». Magari avrà anche peggiorato la situazione pur di non lasciare il rettangolo verde e aiutare i compagni nella difesa di quella vittoria. Comunque, è lì che Guglielmo Ferrante vede andare in frantumi la carriera in serie A, il grande rimpianto di una vita. «Quella stagione avevo esordito in serie A all’Olimpico contro la Roma. Sono entrato nella ripresa per marcare Falcao, il più grande calciatore con cui ho avuto a che fare», ricorda oggi a 66 anni dal buen ritiro di Lettomanoppello, in provincia di Pescara, dove si gode la pensione. Con il calcio ha chiuso da tempo, una volta appese le scarpe al chiodo e capito di non avere futuro nel mondo del pallone ha svolto un corso di aiuto infermiere e ha lavorato negli ospedali di Avezzano e Sulmona. «Non avevo il protettore», racconta, «non l’ho mai avuto. E se non hai il protettore non puoi restare nel mondo del calcio». Per protettore intende il procuratore, ma quello utilizzato da Ferrante è un termine che rende bene l’idea di come si è evoluto il mondo del pallone. E allora si riavvolge il nastro di una vita e si riparte da Lettomanoppello dove inizia a giocare da bambino. Primi anni Settanta.

Il salto a Francavilla. Si gioca per strada, poca scuola calcio. Lo nota un osservatore, Riccardo Di Santo, di Pescara, durante un provino a Francavilla e consiglia all’allora presidente Emidio Luciani di prendere quel ragazzino che si faceva rispettare in mezzo al campo. Acquisto azzeccato. Sei anni in giallorosso, dall’Eccellenza alla serie C1 alla corte del costruttore francavillese. «Era un po’ burbero», sostiene, «ma una brava persona. Faceva delle scenate pazzesche quando le cose non gli piacevano. E se si arrabbiava ci mandava a fare allenamento nei campi dietro lo stadio. Personaggio unico». Luciani nell’estate del 1980 lo vende al Taranto in serie B per 500 milioni di vecchie lire. E a Taranto, con Seghedoni in panchina, Ferrante sfiora l’impresa: la squadra parte con cinque punti di penalizzazione in classifica e va vicina alla salvezza.

La grande occasione. Retrocede in C, ma Ferrante gioca alla grande e viene promosso – pardon venduto – all’Avellino, in serie A. L’Avellino del patron Antonio Sibilia con i giovani Tacconi e Vignola. E, soprattutto, Juary, il brasiliano che danzava attorno alla bandierina quando segnava un gol. «Una scheggia in allenamento e in partita», rammenta Ferrante, «e lo dice uno che correva….». Esordio il 13 settembre 1981 all’Olimpico contro la Roma, 0-0. Stefano Tacconi para un rigore a Roberto Pruzzo e Ferrante entra in campo al posto di Juary che, a sua volta, era subentrato a Chimenti. Il sogno del mediano di Lettomanoppello si trasforma in un incubo a seguito dell’infortunio patito a Como, subito dopo Capodanno del 1982. Altri tempi: medicina e tecnologia non permettevano recuperi veloci. E così l’Avellino cede Ferrante in B a San Benedetto del Tronto per recuperare la migliore condizione fisica. Due anni tra i cadetti, disputati alla grande. Ma i pagamenti non sono sempre puntuali e Ferrante cede alle pressioni e alle lusinghe del Foggia, in C, che gli offre un ingaggio migliore. E così con i rossoneri allenati da Caramanno conquista la promozione in B al primo tentativo. Sei anni in Puglia inframezzati da una parentesi a Celano, in Interregionale, dove contribuisce alla promozione in C con Francesco Andreetti in panchina. In rossonero conosce Pippo Marchioro (“il miglior allenatore che ho avuto, sia sul piano umano che tecnico. Non prendeva in giro nessuno, teneva fede alla parola data”) e ha a che fare con Zdenek Zeman che, però, non è ancora il papà di Zemanlandia. «Ma con il boemo giocavano solo i giovani e io cominciavo ad essere un po’ in là con l’età», ricorda oggi. E così nel 1990 lascia il Foggia, destinazione Castel di Sangro, in C2, dove c’è Renzo Rossi allenatore e un giovane presidente, Gabriele Gravina, che farà tanta di quella carriera da arrivare a comandare il calcio in federazione. Un anno in riva al Sangro, poi va sull’isola, a Ischia, in C1. Chiude con i professionisti a Fermo, in C2, a 35 anni. Poi Atri, in Eccellenza, e Arabona. Un paio di anni tra i dilettanti, il tempo di capire di non avere prospettive. «A 35 anni dopo essermi sempre guadagnato il posto per giocare ovunque avrei dovuto mettermi in mano a un procuratore? E per quale motivo?».

Dopo il pallone. Già, Guglielmo Ferrante – prossimo ai 67 anni - non si piega all’andazzo del pallone. «Il calcio lo seguo, anche se non mi fa più impazzire. Guardo in televisione le grandi sfide. Ma diciamo che mi hanno fatto passare la passione e la voglia». Tante conoscenze, ma di amicizie vere nessuna. «Ho rivisto con piacere Peppino Pavone (il ds di Barletta per anni al Foggia con Zeman, ndr) quando è stato a Pescara, di recente. Mi è venuto a trovare a casa. Avevo un buon rapporto con il povero List, ogni tanto parlo con qualcuno della mia epoca, ma l’amicizia è un’altra cosa». La moglie Patrizia è la donna che ha conosciuto a Francavilla negli anni Settanta, quattro figli che hanno scelto vie diverse dal pallone. «Avessi giocato in epoca recente sarei diventato ricco. In carriera, ho guadagnato, per carità, ma non come oggi. Girano molti più soldi. Ma, per carità, sono fiero e orgoglioso della mia carriera da calciatore». Mai una parentesi a Pescara. «Ci ho giocato contro quando ero al Taranto e alla Sambenedettese, ma i nostri destini non si sono mai incrociati. Sarebbe stato bello, ma è andata così». Tifoso dell’Inter. «Più che altri direi simpatizzante, ero affascinato dall’Inter di Sandro Mazzola. Poi, ho fatto il tifo per le squadre con cui ho giocato».

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