Il gol più bello di Stefano Bellè: «Ho battuto il cancro»

30 Ottobre 2025

La battaglia contro un tumore al pancreas tra chemio e operazione: «Sono arrivato a pesare 45 kg, ero un morto che camminava. Devo tutto alla famiglia e a “4 santi”»

Altro che gol! Altro che palla all’incrocio dei pali. Un’impresa per la vita. Una favola a lieto fine - con qualche lacrima di commozione - condita da un post social che è una liberazione: «Ce l’ho fatta». Stefano Bellè, a 49 anni, ex calciatore e oggi allenatore tra i dilettanti, è un’altra persona: «Fatta la Tac di controllo....tutto ok....il cancro me lo so magnato...come se dice a Roma...ma con me il mostro che voleva fa? Mi hai dato li guai...ma adesso e a cuccia...e stasera si festeggia». Poco più di cinque anni di sofferenza per quello che era il re della fascia: originario di Rocca di Papa e stabilitosi, per amore a Ortona. Un calciatore professionista entrato nel tunnel della malattia trovando la forza per uscirne. Ha vestito tante maglie, tra le quali, Avezzano, Teramo, L’Aquila e Pescara. Settore giovanile della Lazio, uno scudetto Primavera con Alessandro Nesta e Di Vaio. Un po’ di convocazioni in serie A con Zeman in panchina, ma mai una possibilità. Esterno a tutta fascia, un trattore in grado di travolgere tutto e tutti. Una forza della natura. Ha girato l’Italia e ha smesso di giocare nel 2013 a Ortona, tra i dilettanti. Dal campo alla panchina. Le prima esperienze da allenatore fino dicembre del 2019 quando va al Piazzano, in Val di Sangro, nel dicembre del 2019. «Ricomincio a giocare a 44 anni, vuoi perché c’erano tante assenze vuoi per scommessa. E va che è una meraviglia, perché segno tanti gol».

I primi sintomi. Fino a una domenica di febbraio del 2020. «Dopo una partita, in cui faccio due gol, vado al bagno e l’urina aveva il colore della Coca Cola. Mi allarmo e il giorno dopo faccio il prelievo del sangue e le analisi delle urine: valori sballati». Tutti si chiedono come abbia fatto a giocare in quello stato alterato di salute fisica. Subito in ospedale a Pescara, ma la risonanza non né chiara e, soprattutto, scoppia il Covid. L’Italia si ferma e gli ospedali si svuotano per accogliere i contagiati da curare. Stefano Bellè torna a casa.

La diagnosi. Due mesi dopo arrivano coliche e fitte lancinanti. Di nuovo allarme, purtroppo fondato. Nuovi accertamenti e questa volta entra in scena il suocero, il dottor Rocco Valentinetti, un radiologo, che prende in mano la situazione e, soprattutto, capisce che all’orizzonte non c’è nulla di buono. «La diagnosi è stata terribile: tumore al pancreas sul punto di creare metastasi. Fossero passate altre settimane non ci sarebbe stato nulla da fare. Mio suocero per me è un santo, così come il dottor Caracino (oggi primario a Vasto, ndc) che da Pescara mi indirizza a Milano, al San Raffaele», racconta Stefano Bellè, carico e vitale più che mai. «Lì trovo altri due santi, i dottori Belfiore e Crippa, gente che ha visto oltre il palmo della mano».

L’operazione. Dodici cicli di chemioterapia a Pescara e poi, nel febbraio del 2021, l’intervento chirurgico a Milano in cui è stata asportata la massa tumorale residua. «La percentuale di chi ce la fa in questi casi è del 4% e io mi sono messo in testa che dovevo essere uno dei quattro. Per me, per la mia famiglia, per mia moglie Melissa, eccezionale, per i figli (i gemelli di sei anni Alessandro e Leonardo e la più grande Giorgia). Per tutta quella gente, tanta, che in questi anni mi ha manifestato solidarietà. Il brutto del tumore al pancreas è la recidiva. Di solito una ricaduta è letale». Bellè, invece ha finito l’ultimo ciclo di chemioterapia a luglio del 2021 e a fine mese era in campo per una partitella tra amici.

L’incubo e la dedica. «Ho avuto tanti cattivi pensieri. Mia madre, mio padre, mio cognato e, due anni fa, mia sorella: tutti morti di tumore. Mi guardavo attorno e non vedevo prospettive. Ma mi sono imposto che dovevo farcela. E nei giorni scorsi sono andato a fare gli ultimi controlli che testimoniano il fatto che sto bene». Anni vissuti con il cuore in gola, temendo una ricaduta. A ogni controllo un’apnea. «Sono arrivato a pesare 45-48 kg, oggi sono a 90. Mi avevano dato tre mesi di vita: tumore al pancreas, dove scappi? Ero un morto che camminava. Le statistiche erano impietose, ma io dovevo e devo essere uno dei quattro su cento che ce la fanno», spiega Stefano Bellè che ha una dedica particolare: «A tutta quella gente che frequenta i reparti di oncologia. Ai malati in primis, ovvio. Ma anche agli accompagnatori, gente che soffre declinando sorrisi». L’amore della famiglia è stato fondamentale. Adesso Bellè allena gli Allievi dell’Ortona. «La gioia più grande è avere a che fare con i ragazzi e per questo devo ringraziare la dirigenza dell’Ortona che mi ha accolto come un figlio». Nel frattempo, ha continuato ad allenare. «Tre mesi dopo l’operazione a Milano ho iniziato a guidare il Lanciano. Il rettangolo verde e l’erba del campo mi hanno dato la forza e la carica per reagire. Ho affrontato cicli di chemioterapia davvero duri. Non ce la fai, ti cade il mondo addosso. E, invece, no: devo essere uno dei quattro su centro che ce la fanno». Testardo come lo era sul campo, un forsennato della fascia: la serie B a Frosinone, Ancona e Pescara. «All’Aquila mi hanno venduto al Venezia del compianto Zamparini per due milioni, con quei soldi la società è andata avanti altri tre anni». Oggi è di una vitalità contagiosa Stefano Bellè, ma non dimentica. «Ringrazio tutti, del mondo del calcio si dice di tutto e di più, ma io posso solo testimoniare il grande affetto che mi è arrivato».

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