VELA / L'INTERVISTA

Il progettista di Azzurra: «Sono velivoli spettacolari, ma regalano pochi brividi» 

L’architetto Vallicelli: «Luna Rossa più equilibrata, New Zealand barca estrema»         

America's Cup, riproponiamo l'intervista ad Andrea Vallicelli, professore, architetto e progettista della mitica Azzurra (la prima barca italiana che ha partecipato alla sfida nel 1983) effettuata qualche giorno prima che le regate si concludessero a favore dei neozelandesi.

Professor Vallicelli, come “vive” le regate di Luna Rossa? È uno di quelli che mettono la sveglia alle 4 di mattina per vederle subito in diretta tv?
«Le vivo a fasi alterne, dipende da quello che ho da fare l’indomani. Talvolta faccio anche la nottata, e la farei volentieri molto più spesso se potessi. Anche se, è chiaro, vederle dal vivo sarebbe tutta altra cosa».
Immagino la prima sfida, quella del 1983 a Newport con la “sua” Azzurra.
«Il ricordo più lontano, ma quello più forte. Azzurra fu protagonista e arrivò alle semifinali, in quella che era la prima sfida italiana nella storia dell’America’s Cup. Un’avventura straordinaria, una grande esperienza vissuta con spirito garibaldino accanto a personaggi incredibili. Ci fu una concomitanza di fattori che rese quell’avventura molto popolare e che ricambiò l’impegno molto elevato».
Torniamo a oggi, a questi AC 75 come Luna Rossa. Alcuni le definiscono barche volanti, altri aliscafi, altri ancora idrovolanti e Formula Uno del mare. Sono curioso di sapere come lei le definisce.
«Ricorro a un neologismo dannunziano, perché credo che il termine “velivolo” sia il migliore per definire questa tipologia di barche anche volanti. È una “macchina” che vola veloce con le vele e “velivolo”, secondo me, gli si adatta molto bene. D’altra parte l’imbarcazione a vela è già di suo un ibrido, è un artefatto la cui architettura attiene per una parte all’ingegneria navale e per l’altra alle discipline aeronautiche. È una macchina che si muove tra due fluidi, aria e acqua, dal funzionamento molto complesso che la rende molto affascinante. Questi velivoli come Luna Rossa hanno invece una concezione architettonica che per il 90 per cento è di pertinenza dell’ingegneria aeronautica e sono una tipologia evolutiva non dell’imbarcazione a vela, dei “sailing yacht”. Appartengono ad una specifica categoria che ha una sua storia, poiché il primo tentativo di brevetto di imbarcazione a vela con i foil è del 1920. Quindi è una tipologia che ha cento anni di vita parallela all’evoluzione delle imbarcazioni a vela. Con gli AC 75 è stata fatta la scelta di adottare un modello che raggiungesse velocità molto elevate e che la sua architettura fosse l’esito di una ricerca fluidodinamica molto spostata verso le discipline aeronautiche, oltre che sui materiali compositi avanzati. Nel corso dell’America’s Cup sono state utilizzate 11 differenti tipologie di barche e non c’è niente di strano che il cambiamento rientri nelle dinamiche di questa competizione».
E qual è il suo giudizio?
«L’unica critica che mi sento di fare è che nel match race - le regate uno contro uno - barche così veloci rischiano di far perdere alcuni aspetti dello spettacolo relativi all’ingaggio tra una barca e l'altra. Soprattutto basta qualche piccolo errore di manovra e le distanze tra le due sfidanti diventano molto elevate. Viene meno una parte della bellezza adrenalinica del match race. Detto ciò, tifo Luna Rossa e da tifoso mi auguro riesca a portare a casa la Coppa».
C’è una favorita tra New Zealand e Luna Rossa?
«Ad oggi, mentre ne stiamo parlando, la situazione è di grande incertezza e si sono sempre rivelate determinanti le scelte in partenza, a parte imprevisti sfortunati come improvvisi buchi di vento».
Quali sono le differenze tecniche?
«A me sembra che Luna Rossa nell’insieme sia più equilibrata, New Zealand è una barca più estrema e questo si vede sia nella forma dello scafo sia nella forma dei foil, le ali che consentono di restare sospesi sull’acqua».
Più nel dettaglio?
«Lo scafo di New Zealand ha quasi le sembianze di un catamarano, è stato probabilmente disegnato così per avere la randa un po’ più allungata verso il basso e per ridurre anche lo spessore della sagoma dello scafo stesso. Per i foil di New Zealand è stata poi adottata una soluzione differente: sono più piccoli, con una corda più corta e meno angolati di quelli di Luna Rossa. Presentano inoltre soluzioni diverse nell’attacco con i bracci. Sono state fatte scelte che sembrano votate a massimizzare la velocità di punta. Ma bisogna vedere che cosa succede con una giornata con vento e con po’ di mare».
Quelle emozionanti immagini delle passate America's Cup in cui le barche quasi si sfioravano non si ripeteranno più.
«Beh, erano barche più piccoline, molto eleganti e belle da vedere, con velocità molto più bassa. Continuo a credere che la bellezza di una sfida non sia necessariamente legata alla velocità».
Quanta tecnologia sarà possibile importare dagli AC 75 alla nautica in generale, e a quella da diporto?
«Già esistono molte classi di imbarcazioni da regata (di piccola dimensione) con i foil ed è probabile che il numero anche su dimensioni maggiori aumenti. Per la nautica da diporto resta, in primo luogo, il problema del peso delle imbarcazioni che devono avere anche un’abitabilità interna e poi ovviamente quello dei costi di scafi e alberi (a profilo alare) in carbonio, nonchè di sistemi idraulici raffinatissimi. Aggiungo che gli AC 75 sono velivoli che, per stare in equilibrio, hanno bisogno di sistemi di controllo e governo molto sofisticati e che i foil non vanno tanto d’accordo con condizioni di mare formato».
L’ultima domanda è attinente al suo ruolo di professore di disegno industriale: se un suo allievo si presenta con un’idea talmente innovativa che sembra strampalata che cosa gli dice?
«Insegno da più di 35 anni, alla d’Annunzio da 25, e mediamente ho rapporti didattici con un centinaio di studenti l’anno. Non c’è niente di più emozionante di trovarsi davanti ad una manifestazione di genialità. Purtroppo parliamo di casi rari, forse nell’1 per cento degli studenti si manifesta quello che io chiamo il “genio italico”, l’attitudine all’ideazione. Nelle materie progettuali un bravo docente dovrebbe avere capacità maieutiche, cercare di guidare gli allievi all’apprendimento della pratica del progetto. Inoltre è importante raccontare criticamente le esperienze progettuali vissute sul campo e sulla propria pelle. A proposito, vuole sapere come abbiamo chiamato il corso?».
Prego.
«L’abbiamo intitolato a Corradino D’Ascanio perché D’Ascanio rappresenta l’emblema del designer che unisce la competenza dell’ingegnere con la fantasia dell’artista».

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