Simone Fontecchio e gli Stati Uniti: «Porto l’Abruzzo con me»

L’intervista nella redazione del Centro. Il cestista di Francavilla, unico italiano a giocare nella Nba, si racconta tra sport, difficoltà, cucina e le due figlie
PESCARA. «Da piccolo guardavo la serie A e la Nazionale sognando di giocarci, l’Nba era una cosa talmente diversa e lontana che nemmeno immaginavo la possibilità di arrivarci». Si apre così la visita del cestista Simone Fontecchio alla redazione del Centro. Il pescarese, unico italiano a giocare nel massimo campionato mondiale di basket, si racconta tra sfide personali e ricordi legati alla sua terra e alla sua famiglia.
Una carriera in crescendo, esplosa, dopo le parentesi con la Virtus Bologna e l’Olimpia Milano, tra la Germania e la Spagna. Quando ha percepito che poteva puntare a grandi palcoscenici?
«In Eurolega ero un atleta di altissimo livello, uno dei migliori, invece arrivato in America ho compreso di essere quasi al di sotto della media. Ho capito che avrei dovuto lavorare con maggiore intensità. Passo estati intere ad allenarmi per stare al passo con alcuni marziani della lega».
Qualche avversario che l’ha impressionato particolarmente?
«Dico sempre che almeno una ventina di giocatori è di un’altra categoria, da Lebron James che ho idolatrato sin da bambino a Kevin Durant. Alcuni talenti sono fuori dal normale, a dir poco immarcabili. Devi solo sperare che sbaglino. Su tutti, senza aspettarmelo, ho avuto molta difficoltà a reggere Donovan Mitchell di Cleveland, ha una potenza fisica nelle gambe impressionante. Però quando sono in campo, non ho timore reverenziale. Penso solo a giocare».
Invece un complimento che non si aspettava da un collega o dagli addetti ai lavori?
«Riguarda proprio Durant. Ero appena arrivato a Detroit, durante una pausa di gioco, giocavo contro Phoenix dove c’era lui con i Suns. Mi si avvicina e mi dice: “Abbiamo provato di tutto per portarti qui da noi, ma non ci siamo riusciti”. È stato un grande attestato di stima da parte di un fuoriclasse del gioco e pluricampione. Mi ha fatto capire quanto valessi ai suoi occhi».
Unico italiano nella lega attualmente, gli statunitensi come vedono gli europei in Nba?
«Con la globalizzazione del gioco, si sono spalancate le porte agli europei, ma tra gli americani serpeggiano ancora diversi stereotipi, soprattutto verso gli italiani considerati sempre solo “pizza e mandolino”. Diciamo che quotidianamente mi scontro con questa mentalità ma, dall’altra parte, sono i miei stessi compagni di squadra a scherzare su alcune cose. Ad esempio quest’anno a Detroit mi hanno chiesto, dopo ogni tripla, di fare un’esultanza gesticolando alla nostra maniera ed è stato simpatico».
Riesce a trasmettere un po’ di Abruzzo nello spogliatoio?
«Con i ragazzi più grandi spesso condivido del cibo e del paesaggio della nostra regione, però l’Abruzzo non è una meta conosciuta tanto quanto la Toscana o Roma e Milano per intenderci. Diciamo che mi impegnerò ancora di più a trasmettere la nostra terra oltreoceano». Comunque il legame con Francavilla non è stato mai reciso da lei, nonostante sia andato via a 14 anni. «Ogni volta che posso torno a casa in estate. Staremo qui per un mese. Diciamo che ogni anno cerco di convincere mia moglie a trasferirsi in Abruzzo. Lei è bolognese, ma qui ci sono i miei affetti, a partire dai miei genitori e mio fratello. Andando avanti con gli anni, ti rendi conto di quanto siano importanti e di quanto poco tempo hai ancora a disposizione con loro. Quando sono qui, cerco di fare una full immersion abruzzese, coltivando momenti di qualità».
Da pochi giorni è stato scambiato e andrà a Miami. Come si prospetta questa nuova avventura?
«Onestamente è una notizia fresca che non ho ancora metabolizzato. Non so cosa vogliano fare di me, non ci sto pensando ancora molto. Ho sperimentato già in passato il trauma di trasferirmi da una squadra all’altra, come il passaggio da Utah a Detroit. La vivo come una grande opportunità di conoscere sempre meglio gli Stati Uniti».
È arrivato a febbraio di due anni fa a Detroit, dopo un’ottima prima parte di stagione a Utah. Ora lascia il Michigan per spostarsi in Florida con uno stato d’animo diverso.
«Si, Utah ha fatto una scelta puramente aziendale preferendomi perdere per ottimizzare anche sull’incasso della cessione, ma ero felicissimo di andare a Detroit perché c’era un allenatore che mi stimava tanto ed uno staff fantastico. Purtroppo nel giro di pochi mesi il coach è andato via ed io ho trovato sempre meno spazio».
Fino ad arrivare al grande rammarico di non aver giocato nemmeno un minuto nei play off?
«È una cosa che faccio ancora fatica a mandare giù. Mi è dispiaciuto molto, l’ho fatto notare ma avrò eterna gratitudine per la società. Ho chiesto di essere ceduto e mi hanno accontentato, non era per nulla scontato, considerando anche il contratto importante che firmai due anni fa».
Un motivo in più per dimostrare ancora il tuo valore?
«Questo spirito mi appartiene sin da ragazzo, quando giocavo prima a Bologna e poi a Milano. Ho dovuto lavorare tanto per dimostrare il mio valore, soprattutto quando sono passato a Berlino. Quindi non mi lascio scoraggiare».
Chi sicuramente non ha mai smesso di sostenerla, anche nei momenti difficili, è stato suo nonno Vittorio, scomparso pochi mesi fa.
«Faccio ancora fatica a parlarne, era una delle poche persone che davvero ascoltavo per mettere in pratica quanto mi diceva. Credo che non si sia mai perso una mia partita, un vero punto di riferimento».
Il valore più grande che le ha lasciato?
«Quello che adesso abbiamo trasformato in un hashtag in abruzzese ovvero #nenmellà, “non mollare”. Una frase che mi ripeteva costantemente, sin da quando giocavo prima a Francavilla e poi a Pescara. Lui veniva dagli spalti e, quando eravamo sotto nel punteggio, mi urlava “nen mellà”. Ogni volta che ci ripenso mi viene un sorriso. Cerco di portarmelo dentro come un ricordo unico».
Quindi Miami, una nuova sfida per tutta la sua famiglia, specie per le due figlie.
«La piccola, Luna, compie un anno il mese prossimo, quindi non si rende conto di molto, invece Bianca ha sei anni ed ha già cambiato due continenti e cinque città. È bravissima perché si adatta sempre, da genitore spero che questi cambiamenti non le creino traumi di alcun tipo, è una bambina molto aperta, una spugna desiderosa di imparare tanto. Non è facile per lei cambiare scuola e compagni, ma è più forte di me e mia moglie. Sono davvero fortunato a condividere la mia vita con una donna come Rosa, è il punto di riferimento della famiglia, la compatta, impronta l’educazione delle nostre figlie in modo incredibile. Ci siamo conosciuti a Bologna quando giocavo alla Virtus e stiamo insieme da 10 anni».
Il ritmo frenetico della stagione, con 82 partite in cinque mesi, spesso la vedono in giro per l’America. Quando ha un paio di giorni di pausa, come li trascorre?
«Se sono a casa, mi piace fare il papà, porto Bianca a scuola, aiuto mia moglie nelle faccende di casa e le dedico del tempo, rilassandomi in famiglia. Purtroppo però momenti così sono davvero rari, infatti dico sempre che saluto la mia famiglia ad ottobre e la rivedo in primavera».
Casomai gustando qualche pietanza italiana come sgarro?
«Mia moglie è una brava cuoca, ma mai come mia suocera (ride, ndr). Sono bolognesi doc ma solo sua madre è capace di cucinare le tagliatelle al ragù in un modo spettacolare. Tuttavia, il piatto che mangio quando voglio staccare dalla routine e per risollevarmi l’umore in momenti no è un bel piatto di carbonara. In sua difesa ammetto che nei supermercati americani non si trovano alimenti degni di essere chiamati italiani».
Gli arrosticini invece?
«Me li hanno portato il primo anno che sono arrivato a Salt Lake City. Un’azienda di New York mi fece come regalo una sessantina di arrosticini surgelati con tanto di fornacella. La cosa simpatica è che in quello stesso giorno venne a trovarmi il mio preparatore atletico, Matteo Del Principio, e li abbiamo cucinati insieme. In generale, però al momento non è così facile reperire prodotti del genere soprattutto per la questione dei dazi».
Toccando questo tema, Detroit, sicuramente patria dell’industria automobilistica statunitense, come ha reagito all’onda politica di Trump?
«L’attuale amministrazione impone uno stato sociale abbastanza allarmante, lo stesso problema dell’immigrazione non è sottovalutabile con persone che sognano un visto. È un dato agghiacciante soprattutto per noi che veniamo dall’estero. Mentre a Salt Lake City ho vissuto in un contesto più familiare, Detroit è altamente globalizzata, ci sono etnie differenti, generazioni di famiglie emigrate dall’Europa e dall’Asia negli anni Sessanta. C’è disagio come ha dimostrato anche la reazione del mercato azionario con i dazi».
Dall’Italia i giocatori Nba sono considerati delle stelle, ma com’è il rapporto con la fama negli States?
«Il bello e, al tempo stesso, il brutto degli Stati Uniti è che ognuno è focalizzato sulla propria realizzazione. Quindi è raro che vada in giro e mi fermino per foto o autografi. È diverso rispetto all’Europa. Possiamo vivere la quotidianità con molta tranquillità».
Invece gli italiani all’estero la seguono nelle varie arene?
«Sempre, ovunque c’è qualcuno con una bandiera italiana che mi chiama dagli spalti. È bello riuscire a salutare quanta più gente possibile».
Come vive la preparazione a una partita? Ha qualche rituale particolare?
«Non sono scaramantico, ma per una questione abitudinaria faccio sempre le stesse cose. Ho una playlist su Spotify con 40 canzoni fisse, soprattutto ascolto rap italiano come Guè o Marracash. Però sin da piccolo mio padre mi ha condiviso una cultura sul cantautorato italiano che mi porto dentro ancora oggi. Ad esempio ascolto molte canzoni di Zucchero con cui sono cresciuto durante i viaggi in macchina da piccolo, poi ci sono i mostri sacri della musica internazionale come i Pink Floyd o i Rollin Stones».
A proposito di tranquillità, ancora qualche giorno di relax in Abruzzo, poi si tornerà in Nazionale per gli Europei dal 28 agosto. Sensazioni su questa nuova avventura?
«Non vedo l’ora di tornare in Nazionale, mi è mancata tantissimo l’anno scorso. A fine carriera forse non avrò tante presenze, considerando anche tutte le finestre saltate dall’Nba, però la vivo con molto orgoglio».
Il sogno nel cassetto?
«Vincere una medaglia con l’Italia, qualunque essa sia tra Mondiali, Europei o Olimpiadi. Rappresentare l’Italia all’estero mi carica tantissimo, condividere tanto tempo con compagni con cui sono cresciuto è un momento speciale».
Tra di loro, un posto speciale è riservato ad Achille Polonara che sta combattendo una nuova battaglia contro un male.
«Ho sentito Achi pochi giorni fa, gli sono vicino perché nessuno merita di vivere questi momenti. Spero che riesca a sconfiggere il male e di riaverlo presto con noi».
Il ct Pozzecco ha detto che sogna di portarlo con lui nello staff.
«Sarebbe fantastico».