Tacchi: da Sulmona fino alla A con l’Avellino di Sibilia. E a Pescara che lite con Rosati

Il racconto di Giancarlo, il primo dei cinque figli di Juan Carlos (arrivato dall’Argentina nel 1956) tra l’Irpinia e i tre anni in maglia biancazzurra
TRASACCO. Giancarlo Tacchi è il primo di cinque figli del compianto Juan Carlos arrivato in Italia nel 1956 (e scomparso nella Marsica nel 2007) dall’Argentina ingaggiato dal Torino. Lui proprio all’ombra della Mole è nato e ancora oggi tifa per i granata. Alla storia (e nei ricordi di chi collezionava le figurine Panini) è passato come Tacchi I, perché ha avuto altri due fratelli impegnati nel mondo del calcio professionistico, Oscar e Maurizio. Calcio anni Settanta-Ottanta. Oggi Giancarlo a 68 anni vive a Trasacco, nella Marsica, lontano dal calcio. Lo vede in televisione, ma l’ha lasciato una ventina di anni fa. Vive con la sorella Patricia e il fratello Sergio. Un figlio, Manuel, ha provato a ripercorrere le sue orme, ma si è fermato ai dilettanti e oggi è un professore di educazione fisica a Roma. Da Sulmona alla serie A con l’Avellino. Era il 1975 quando nel centro ovidiano è piombato l’Avellino per prendere il figlio di Juan Carlos, che è stato anche al Napoli per sei anni negli anni Sessanta.
La serie A in Irpinia. Dalla Promozione alla serie B a 18 anni. È un’ala sinistra e non ha paura. Lotta e sgomita, ha la garra dei sudamericani. Una breve parentesi alla Paganese e nel 1978 fa parte della squadra irpina che conquista la prima promozione in serie A. È nell’undici titolare dell’Avellino che l’11 giugno vince al Ferraris di Genova contro la Sampdoria e conquista la promozione. E così può giocare in serie A, stagione 1978-1979. Allenatore Rino Marchesi. Debutto al Meazza contro il Milan, alla prima giornata di campionato. Non per scelta tecnica, ma per necessità. Sì, perché il compianto Adriano Lombardi aveva dimenticato il documento d’identità necessario per il riconoscimento pre-partita. E così è toccato a Tacchi giocare dall’inizio. «Bei tempi, il profumo della massima serie era diverso», ricorda oggi, «grandi sfide. La possibilità di giocare in amichevole contro Franz Beckenbauer e Johan Cruijff. La Juve, l’Inter, il Milan». E il mitico sottopassaggio dello stadio Partenio che incuteva timore negli avversari. «In quella squadra c’era chi si faceva rispettare», sorride, ripensando ai vari Di Somma e Cattaneo. Il presidente era il commendator Antonio Sibilia. «Con me si è comportato bene e non mi ha fatto mancare nulla. Girava con la pistola? Io non l’ho mai vista. Ad Avellino sono stato bene, c’erano calore e affetto verso i giocatori. Si era creata una bella chimica tra pubblico e squadra».
Il triennio biancazzurro. Poi Genoa, voluto da Gianni Di Marzio, Arezzo e Lecce, fino all’approdo a Pescara in serie C. «Mi volle Tom Rosati, era l’estate del 1982 e l’Italia aveva appena vinto i Mondiali in Spagna. Vincemmo il campionato all’ultima giornata. A Caserta segnò il compianto Sauro Massi e io feci l’assist per il gol della promozione in B. Ricordo il ritorno da Caserta, il nostro pullman scortato da quelli dei tifosi. Una carovana biancazzurra fino al ritorno in città. Indimenticabile».
Che lite con Tom. Poi, la serie B, nella stagione dello schiaffo di Tom Rosati a Vittorio Cozzella. «Non è stata una bella cosa», racconta a distanza di tempo, «una scena da censurare. Tant’è che al ritorno negli spogliatoi affrontai il mister e gli dissi che aveva sbagliato. Ci fu una discussione, molto accesa, ma senza mai venire alle mani». Da Tom Rosati a Enrico Catuzzi, sempre in serie B a Pescara, stagione 1984-85.
Contro Maradona. In estate la sfida di coppa Italia all’Adriatico contro il Napoli di Maradona. 0-3 firmato da Penzo, Bertoni e Dieguito. «Catuzzi ogni tanto mi faceva giocare mezzala e incrociai spesso Maradona. Lo marcai. Entrambi bassini, solo che lui era il mio idolo. Bravo e, soprattutto, argentino come papà. Uno dei momenti più belli della mia carriera da calciatore». Settimo posto in campionato. Tra i biancazzurri c’erano De Martino e un acerbo Rebonato. Tacchi era un pilastro di quella squadra. «Catuzzi stravedeva per me e io per lui. Sono stato davvero bene. Ci divertivamo. È stato il miglior allenatore tra quelli che ho avuto». Ma al termine della terza stagione in biancazzurro arriva il trasferimento. «Stavo bene a Pescara, non dico da re, ma quasi. Vivevo a Francavilla. Tante camminate sulla spiaggia. Mi voleva il Foggia e ho ceduto alle lusinghe».
Il declino. Da lì - c’erano Peppino Pavone e Delio Rossi tra i satanelli - la parabola discendente. Va a Padova e poi, al fine di svincolarsi, va a giocare in serie D, al Castel di Sangro di un giovane Gabriele Gravina. Poi, Sulmona e i dilettanti prima di appendere le scarpe al chiodo.
Tacchi I e Tacchi II. Ma tra gli aneddoti della carriera ce n’è uno: le sfide contro il fratello Oscar (più giovane di due anni, oggi vive a Faenza). Si sono affrontati più volte. Saltato il primo incrocio quando Giancarlo era a Lecce e Oscar a Campobasso, si sono affrontati per due stagioni di fila, 83-84 e 84-85: il più grande dei fratelli con la maglia del Pescara e Oscar con il Campobasso. Due successi per Oscar (in un’occasione segnò anche), uno per Giancarlo e un pareggio. «Ricordo una volta», racconta, «loro andarono in vantaggio e noi la ribaltammo grazie ai gol di Cerone Polenta, entrambi su assist miei». Già Cerone. «Ersilio è stato un grande amico». Era un’ala sinistra Giancarlo Tacchi, un attaccante atipico. «Una seconda punta battagliera, giocavo vicino al centravanti. Non ho fatto molti gol, ma ne ho fatti segnare tanti e vi posso garantire che anche l’assist ha il suo valore. Non lo paragono al gol, ma chi fa l’assist si sente comunque felice. E poi ho giocato anche da mezzala, ma comunque un giocatore offensivo. Sempre».
Dopo la fine della carriera. Il suo buen ritiro è Trasacco, paese nella Marsica dove si è stabilita la famiglia. Molti lo conoscono e nemmeno immaginano la sua carriera da calciatore. Qualche esperienza da allenatore, ma non ad alti livelli. «Non alleno da 15-20 anni. Seguo il calcio, mi piace. È stata la mia vita per tanto tempo. No, non immagino in chi mi potrei rivedere oggi. Il mondo del pallone è cambiato. Non saprei dire se in meglio o in peggio. So solo che ho giocato in un contesto diverso, anche a livello sociale». Ha affrontato difensori arcigni. «A quei tempi si giocava per divertimento, certo, ma anche per portare a casa la pagnotta. Non circolavano i soldi di oggi, gli ingaggi erano più razionali. Con il calcio si viveva bene, ma non si diventava ricchi a vita. E sul cammino di un attaccante c’era sempre un difensore pronto a sputare l’anima pur di non farlo avvicinare alla porta palla al piede. Le partite spesso si trasformavano in battaglie. Ma ovunque sono stato ero benvoluto. Ero un grintoso, uno attaccato alla maglia».
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