rugby sei nazioni

Zaffiri: passione e emozione, così l’Italia crescerà

L’ex terza linea: «La nostra forza? Gli 80mila dell’Olimpico. Serve tempo, ma il lavoro delle Accademie darà i suoi frutti»

L’AQUILA. Maurizio Zaffiri, ex terza linea dell’Aquila Rugby e della Nazionale, è stato i primi aquilani a giocare nel Sei Nazioni, il più prestigioso torneo di pallaovale continentale. La prima volta è stata nel 2001 – l’Italia è entrata solo nel 2000 quando, appunto, il Cinque Nazioni è diventato Sei – e poi nelle edizioni 2006 e 2007. Domenica scorsa Zaffiri, attuale preparatore fisico del club neroverde, ha visto non senza nostalgia gli azzurri perdere (7-33) contro il Galles all’Olimpico di Roma.

Zaffiri, cosa pensa del suo Sei Nazioni e quello di oggi?

«Il rugby è cambiato profondamente. E il Sei Nazioni lo stesso. Anche per l’ingresso dell’Italia».

Ma come, non è la Cenerentola del torneo? Dicono che stia lì in mezzo solo per equilibri politici.

«Questa è una leggenda da sfatare. L’Italia è lì perché merita di esserci. Non dimentichiamo che è nella prima fascia delle Nazioni mondiali».

Si vocifera anche che potesse essere sostituita da un’altra nazione...

«Anche questa è una falsa voce. Nessuna nazionale in Europa ha fatto quello che ha fatto l’Italia: ha battuto la Francia, la Scozia, il Galles, ha giocato ottimamente contro l’Inghilterra mettendola in grande difficoltà. Riesce a portare 80mila persone all’Olimpico, cosa che oramai non si registra in nessuna partita di cartello neppure nella serie A di calcio. La gente deve cominciare a capire che il rugby in Italia è cresciuto tantissimo a livello di Nazionale».

Però per mettere insieme una squadra discreta l’Italia deve far ricorso a tanti escamotage per tesserare giocatori stranieri.

«È vero, ma bisogna fare una riflessione: l’Italia è quella che sta meglio da questo punto di vista. Purtroppo, molti non sono informati, ma la Francia ha tanti sudafricani; l’Inghilterra, che potrebbe permettersi di far giocare tutti britannici, ha sudafricani e neozelandesi. E a proposito di All Blacks: loro sono i peggiori di tutti, perché di neozelandesi ce ne sono pochissimi, sono quasi tutti del bacino di Tonga. I giovani vengono visionati dai talent scout e portati nei Tutti Neri, dove viene fatta molta formazione. L’unica Nazionale dove sono tutti originari del proprio Paese è l’Argentina. Tanto che il vice presidente della World Rugby, Augustin Pichot, vuole abolire la cosiddetta “eleggibilità”».

Che cos’è la “eleggibilità”?

«Se un atleta di qualsiasi nazionalità riesce a giocare per tre anni di seguito in un determinato Paese, può essere convocato in quella Nazionale».

Tornando al Sei Nazioni. Come vede l’Italia?

«Contro il Galles la squadra di O’Shea ha girato quasi al 90 per cento delle sue possibilità. Ha retto bene – al di là dei commenti sui media – il confronto con il Galles, che nel secondo tempo è stato costretto a un game plan, cambio di gioco, calciando il pallone nell’area azzurra e mettendo sotto pressione l’Italia. Il resto l’ha fatto la mancanza di disciplina degli azzurri, cioè i tanti falli commessi e le conseguenti punizioni, e alcune ingenuità. Non dimentichiamo che fino al 62’ il Galles vinceva 12-7 e la gara era in bilico».

Quindi è un’Italia che può dare speranze?

«Qui c’è un problema di fondo: avverto un certo allarme, qualche campanello, perché in Italia abbiamo il mito del risultato. A lungo andare questo potrebbe penalizzare la nostra Nazionale. Il processo che ha innescato la Federazione, quello delle Accademie e della valorizzazione dei giovani, non è né breve, né semplice».

Perché?

«I motivi sono due: le Accademie portano via i talenti ai club, anche se le società prendono soldi. I giocatori nel fine settimana vengono lasciati liberi di giocare nelle loro squadre, ma non c’è più l’attaccamento alla maglia. E non tutti i club si riconoscono in questo modello. I ragazzi non pensano più ai colori sociali, ma a arrivare in Nazionale. Il secondo motivo è il Dna, la cultura del rugby: per radicarla ci vuole tempo, ma siamo sulla buona strada».

In Nazionale arrivano veramente i migliori?

«Sicuro e spiego perché. Ci sono solo due squadre professionistiche in Italia, Zebre e Benetton, che giocano nella Celtic League. Hanno in tutto 70 giocatori, di cui 15 stranieri. Gli altri che restano sono gli italiani più bravi e lì va a pescare la Nazionale. Così non abbiamo, però, 4/5 scelte per ruolo, come le altre nazionali. Ma O’Shea sta facendo un grande lavoro, perché segue anche le nazionali under 20 e 18, lavora con il nuovo “formatore” di tutti i tecnici e giocatori dalla under 20 in giù, Steven Abaud, irlandese anche lui. La Fir li ha scelti apposta».

Lei non è stato rieletto consigliere federale in quota giocatori. Come mai? La Fir come si sta muovendo?

«La mia mancata rielezione è dovuta solo al fatto che c’è stata una cattiva comunicazione. Stop. La Fir si sta muovendo benissimo, soprattutto con la Nazionale».

Non c’è troppo divario tra lo spettacolo e il livello del Sei Nazioni e la Top Ten italiana?

«È vero. Ma bisogna tenere conto che il 60 per cento delle entrate della Fir vengono dai proventi del Sei Nazioni: se l’Italia vince tre partite, significa che le entrate salgono di 5/6 milioni di euro».

E vengono reinvestiti?

«Nel processo di formazione, con le Accademie, come dicevo, che fanno crescere come uomini, con lo studio regolare a scuola, e come giocatori, con tecnici e strutture adeguate. In Italia le sedi delle Accademie sono Torino, Milano, Padova, Mogliano, Prato, Roma, Benevento, Catania, Rovigo. Il capitano dell’under 20, Marco Riccioni, che in pochi conoscono, è cresciuto nell’Aquila e fra tre anni andrà nella Nazionale maggiore. I club, però, devono prendere una decisione: se lavorare per la Nazionale oppure fare rugby sociale».

Un ricordo con la sua Italia al Sei Nazioni?

«Il 16-16 in Galles, nel 2006, e le vittorie con Scozia e lo stesso Galles nel 2007. Affascinanti poi le serate di gala in smoking... E poi ho il ricordo di un grande arbitro, che mi ha diretto anche in campo internazionale quando giocavo con Calvisano e Parma: Nigel Owens, ancora in attività e ritenuto il migliore del mondo. È lui che ha sdoganato l’omosessualità nel rugby: è gay, ma ha grandissimo carisma».

I rapporti con Parisse, Masi e Festuccia?

«Ottimi, sono tre grandissimi giocatori».

E L’Aquila Rugby?

«Sarebbe un discorso lungo. Dico soltanto che non ci sono sponsor, si stanno facendo salti mortali per sopravvivere. Ci sono cinque club, di cui due in serie A, sembra quasi una guerra tra poveri».

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