Donne sfruttate e soldi riciclati: a Teramo condannata la banda dei nigeriani

La corte d’Appello ribalta la sentenza di assoluzione di primo grado per sei: 2 anni e 9 mesi a ciascuno. Disposta la confisca dei 200mila euro sequestrati nel corso delle indagini ai vari componenti
TERAMO. La cronaca si riavvolge sempre in un’aula di tribunale. In questo caso con una sentenza d’Appello che ribalta quella di assoluzione di primo grado e condanna la banda dei nigeriani. Due anni e nove mesi ciascuno ai sei componenti accusati di aver sfruttato connazionali sulla Bonifica del Tronto e di aver portato i soldi in Nigeria, spesso nascosti nella biancheria intima.
Le motivazioni della sentenza bis tra novanta giorni. Per ora c’è un dispositivo che accoglie il ricorso della Procura distrettuale contro la sentenza di assoluzione di primo grado emessa dalla Corte d’assise teramana (con formule dal fatto non sussiste al non aver commesso il fatto) al termine del maxi processo sulla tratta di giovani nigeriane, sul riciclaggio dei soldi provento di sfruttamento e spaccio. In primis sono stati condannati i due che per la Procura erano i presunti capi dell’associazione: Bright Omosigho e Emmanuel Ojemudia (entrambi residenti a Martinsicuro) per cui la Pubblica accusa (rappresentata da Simonetta Ciccarelli, all’epoca pm della Procura distrettuale dell’Aquila e oggi in Cassazione) in primo grado aveva chiesto una condanna a 9 anni ciascuno. La corte d’Appello, inoltre, ha disposto la confisca dei 200mila euro all’epoca sequestrati che per l’accusa erano provento dell’attività di sfruttamento delle giovani connazionali.
Le indagini erano scattate nel 2018 con le successive ordinanze di custodia cautelare. Secondo la Procura una vera e propria organizzazione criminale con un voluminoso giro d’affari: quello con cui i corrieri nigeriani portavano in patria i soldi provento di spaccio e sfruttamento della prostituzione. Somme che, sempre secondo la ricostruzione dell’accusa, andavano da 70mila a 10mila euro in contanti con le banconote nascoste nelle suole delle scarpe, nelle cinture, nella biancheria intima per superare i controlli negli aeroporti. La corposa indagine era nata da una precedente inchiesta scattata sempre nell’ambito di operazioni legate al reato di tratta. L’operazione “Pesha”, appunto dal nome dato alla cellula che da Martinsicuro era arrivata ad Ancona con, per l’accusa, un giro d’affari illeciti in diversi ambiti. Secondo le indagini della squadra mobile teramana gli affiliati residenti a Martinsicuro, due dei quali rivestivano ruoli di responsabilità in un comitato esecutivo della cellula, avevano vari interessi. Se lo spaccio di droga, più fiorente in altri territori, era un’attività residuale, i nigeriani che operavano nella parte nord della provincia avrebbero gestito un giro di prostituzione. Per gli inquirenti un’associazione con rito di affiliazione caratterizzato da una rigida gerarchia.
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