Crepet dopo la morte del giovane rosetano: «Contano solo soldi e social, i nostri giovani annoiati rischiano di rimbecillirsi»

Lo psichiatra al Centro: «Adesso bisognerebbe chiudere le piattaforme, i ragazzi sono l’emblema della solitudine, gli adulti li hanno deresponsabilizzati»
TERAMO. «I nuovi miserabili non sono quelli senza soldi, ma i ricchi soli. E ce ne sono tantissimi, a milioni. Una volta erano davanti alla chiesa che chiedevano la carità; ora in camera da letto che chattano, spesso con sconosciuti». Lo psichiatra, sociologo, saggista e opinionista Paolo Crepet, indica la strada. E lo fa con chiarezza: «I giovani devono imparare a cadere sette volte per rialzarsi otto, con la forza della resilienza. Il pericolo più grande dei social? Quello di rimbecillirsi».
L’Abruzzo sconta almeno due casi recenti di uso inappropriato delle piattaforme telematiche: il 27enne trovato senza vita, a Roseto degli Abruzzi, davanti al computer con una maschera antigas e il 19enne Andrea Prospero, di Lanciano, morto in un monolocale a Perugia. Nelle chat del pc, l’orrore di una possibile istigazione al suicidio. Dietro le due tragedie, l’ombra delle challenge, delle sfide estreme sui social alla ricerca di consenso. Di manipolazioni e vessazioni, consumate dietro un’anonima tastiera.
Professor Crepet, stiamo crescendo una generazione debole?
«Tra un paio di mesi sarò proprio da voi, a Pescara, per parlare di questo. Che le devo dire? È tutta colpa dei social, basta chiuderli».
È un’affermazione perentoria: ne è convinto?
«Straconvinto. Ci rifletta un attimo: non facciamo altro che riportare questi casi sulla stampa. Ragazzini che si suicidano, giovani che partecipano a challenge mettendo a rischio la propria vita, che si scambiano foto inaudite. Le ragazzine che si detestano perché non hanno il fisico perfetto delle influencer. Sono cose che diciamo da anni. Se abbiamo fatto battaglie per una dieta genuina, il green, i prodotti bio, perché non si possono fare per questo?».
Non è proprio la stessa cosa, però...
«Stiamo parlando di elementi tossici come il gas, come i veleni. Solo che i primi si ingeriscono, gli altri ci entrano nel cervello. Mi chiedo cosa aspettiamo a debellare questo cancro. Ma tanto è una battaglia persa».
Perché dice così?
«In ballo ci sono trilioni di dollari che fanno pressione. Sa quante cene a Bruxelles, a Roma, a Parigi».
Qual è il pericolo più grande che corrono i giovani?
«Quello di rimbecillirsi. Non si ricordano i testi a memoria, non scrivono, non leggono. Siamo di fronte ad un disastro pedagogico totale. Ma la tecnologia, si badi bene, può ancora essere utilizzata in modo giusto».
E come?
«Nessuno dice niente su Google, ad esempio. Dipende da come si usa. Il problema è l’estremizzazione, l’utilizzo sconsiderato dei social e delle piattaforme telematiche. Su Youtube si può vedere anche l’anomalo serpentone che uccide il contadino in Papuasia, ammesso che sia vero. Ma si può anche ascoltare un concerto di musica classica. Il web va utilizzato in maniera creativa. Solo che i capi dell’intelligenza artificiale, che controllano questo mondo, non ci dicono: non usate noi, ma leggete un sacro testo di Italo Calvino».
E come potrebbero farlo, scusi. Non ne trarrebbero vantaggio...
«Ha centrato il punto. Il mondo è come un mercato in cui c’è la gente che vende le mele e quella che le acquista: perché non esercitiamo la nostra libertà e non scegliamo la bellezza? Possiamo acquistare una cosa che non ho mai visto, che attira la mia attenzione, ma è positiva. Non necessariamente l’unico prodotto che ci viene propinato».
È un messaggio rivolto ai giovani?
«Non solo. Vedo genitori e nonni che fanno altrettanto e passano ore e ore sul pc. Non vanno più all’osteria o al circolo bocciofilo. Tutti rincoglioniti davanti alla televisione: tra un po’ vedremo ottantenni che si riducono ad acquistare la pizza on line. Ma le pare?».
Lei, quindi, non ne fa una questione generazionale?
«No, non è una generazione a confronto con un’altra, magari fosse così. Negli anni Ottanta è iniziata l’era della tecnologia digitale, ma stiamo andando oltre perché il mercato spinge. Non me la posso prendere con Amazon, né con altre piattaforme. È che sta cambiando il mondo, ma in peggio».
Mi faccia qualche esempio.
«Qualche settimana fa sono stato ad Ancona, in piazza dei Papi, dove prima c’erano tutte botteghe, una profumeria famosa che aveva essenze non facilmente trovabili e una libreria bellissima e molto fornita. Il proprietario mi ha scritto (avevo acquistato un paio di libri da lui) avvisandomi che aveva chiuso bottega dopo due anni mezzo. Aveva venduto pochissimi libri, tra cui i due testi che mi aveva venduto. È il deserto letterario e culturale. Una società che sta regredendo, baretti con la musica sparata in ogni città. Si vive solo di quello, abbiamo “Ibizzato” il Paese perché l’estate senza movida è brutta, quindi extrasistole da giugno a settembre. Ma lei ha notato che nel rumore non si parla?».
Eccome. Quindi?
«Tutto questo isola l’individuo. Il giovani sono automi in mezzo al frastuono. Ma lei ce lo vede il signor Elon Musk che va in pizzeria con gli amici a chiacchierare? Temo che non gli capiti spesso. I nuovi miserabili sono proprio i ricchi soli».
E in questo mondo al contrario i giovani come lo colloca?
«I ragazzi sono l’emblema della solitudine, alla ricerca spasmodica di consenso e di qualcosa da copiare. In fondo è sempre andata così solo che negli anni ’80 ascoltavano i Rolling Stones, adesso, si identificano nel nulla. Nella noia, nelle sfide estreme online, perché non c’è futuro. Perché noi adulti, di varia taglia, abbiamo detto: non ti preoccupare, tanto erediti. Rimani qui, non fare niente, fai finta di finire il liceo, iscriviti all’università che tanto un pezzo di carta te lo rifileranno».
Sta dicendo che abbiamo deresponsabilizzato i nostri giovani?
«Assolutamente sì. E loro che fanno? Prima vanno al bar, poi cercano altro, qualcosa di artificiale o di artificioso. E i più deboli, che soccombono, paradossalmente sono i più aggressivi. Non è che chi gonfia il petto è più forte, lo è chi ha qualche idea».
C’è speranza di tornare indietro?
«Non lo so, francamente non credo. Siamo davanti ad un mercato drogato. Perché tutti invitano a chattare e si consuma la corsa ai follower, mentre nessuno più invita a fare il miele, a dipingere, a intrecciare bambù, a passeggiare nella natura?».
Si riferisce ai genitori?
«Oggi gli stessi genitori sono in cerca di un’identità e di vita. Devono dare esempi positivi, leggendo, studiando, lasciando il telefono a cena. Invece sono sempre con lo smartphone sull’orecchio ad ascoltare i messaggi».
Sta generalizzando, però.
«Parlo di massa. Io, ad esempio, leggo, vado alle mostre, cerco di vivere sennò come farei a scrivere? Se vivessi di social di cosa scriverei? Per scrivere devi leggere, conoscere, sapere, esplorare. Torniamo a passeggiare, a parlarci, ovunque, ad entrare in contatto con la natura. Se in un paesino si facesse una bella sagra semplice, come una volta, senza musica che spacca i timpani, sarebbe un gesto eroico. Ma sono tutti alla ricerca del consenso, perché il mondo si regge sui follower e questo indica già una mancanza di libertà. Pensi se un sindaco di un bel paese dell’Abruzzo dicesse: io voglio che la gente in piazza parli, si diverta, racconti le barzellette. Se non mettesse musica fino alle tre di notte. Sarebbe già una piccola rivoluzione».
Manca il coraggio di tornare indietro?
«Ma magari ci sarà qualcuno, non necessariamente un novantenne, che avrebbe voluto uscire con quattro amici e parlare in santa pace, solo che viene tacitato. Giro tutta l’Italia e la prima raccomandazione, quando entro in un hotel, non è di avere una stanza vista mare, ma tranquilla, dove poter dormire, leggere, riposare. Parlo anche della realtà dell’Abruzzo: se sbagli albergo sulla spiaggia sei morto».
Questo per dire?
«È lo specchio di una società malata. Di un mondo di rincoglioniti, orrendo, terrificante. Si beve, ci si sballa, ma non credo che tutto questo ai genitori piace. Eppure, se un ragazzo torna a casa ubriaco fradicio i genitori dicono: al prossimo compleanno bevi meno. Manca l’autorevolezza dei genitori, della famiglia, degli insegnanti, delle istituzioni. Chi è autorevole oggi? Io sono una persona libera, dico quello che penso».
Un consiglio ai giovani?
«Siate ribelli. Ribellatevi a questo mondo orrendo che vi abbiamo costruito. Scappate con il treno, tornate alla bellezza delle cose vere, girate il mondo, siate meno provinciali. Osservate le cose belle del mondo, andate a vedere il nord europea: a Oslo le scuole sono bellissime. I ragazzi le frequentano dalle 8.30 alle 17.30. Tutti vanno a scuola quasi tutto il giorno, sono scuole piene di cose. In quell’ambiente faccio presto a dire lasciare i telefonini fuori dalla classe perché ricompenso con la bellezza, la curiosità, l’interesse».
In Italia non è così?
«Siamo lontani anni luce, vittime di una società di facciata. Non posso toglierti il telefonino e non darti niente. O siamo inginocchiati, servi dei nostri figli, o non sappiamo cosa dire. Poi non ci lamentiamo dei giovani morti in challenge o dell’istigazione al suicidio. Io non capisco dove sia fuggita la nostra intelligenza».
La scuola che ruolo può avere?
«È evidente che la scuola deve essere anche fatica. La fatica è anche portare due quaderni, un sussidiario. Lo abbiamo fatto tutti, e non capisco perché adesso le giovani generazioni devono essere servite e riverite come fossero tutti dei principi d’Inghilterra. Ma non tutti hanno il coraggio di dire le cose come stanno. Un intellettuale deve tirare fuori anche il marcio della società e analizzarlo. Deve essere scomodo e ingombrante. Io lo sono, piaccia o no».
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