IL CASO

Licenziata per un panino, vince la causa

Lo aveva preso e mangiato nel supermarket di Giulianova dove lavorava. I giudici: «Non c’è stata appropriazione di beni aziendali». E ora sarà reintegrata nel negozio

TERAMO. «Ho aspettato cinque anni questa sentenza e oggi non vedo l’ora di tornare al mio posto di lavoro». Le parole della 57enne Anna (nome di fantasia) sono la sintesi più efficace del caso rimbalzato anche sulle pagine dei quotidiani nazionali come quello della “commessa licenziata per un panino”. Perché dopo due sentenze, una opposta all’altra, c’è voluto il pronunciamento della Cassazione e il successivo riesame dei giudici della corte d’appello aquilana a stabilire che lei non doveva essere licenziata per aver preso e mangiato un panino durante il servizio e che deve essere reintegrata nel supermercato di Giulianova dove lavorava.

«Non c’è stata nessuna appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali», scrivono i giudici (presidente del collegio Armando de Aloysio), «in mancanza di ulteriori elementi deve darsi necessario rilievo al modestissimo valore della merce consumata, ma soprattutto alla storia lavorativa della dipendente che pacificamente nel corso di 14 anni non è stata mai oggetto di alcun richiamo disciplinare». I giudici della Suprema corte, nell’accogliere il ricorso della donna (assistita dagli avvocati Gabriele Rapali e Sigmar Frattarelli), a luglio scorso avevano annullato il pronunciamento dell’Appello e rinviato gli atti alla corte aquilana in diversa composizione rispetto a quella che aveva cancellato la sentenza di reintegro del primo grado. I legali hanno sempre sostenuto che non ci fu nessuna appropriazione dei beni (un panino, una confezione di salmone e una bibita), che la donna li prelevò senza nascondersi consumandoli davanti a tutti e gettando le confezioni nel cestino del bancone dove lavorava e dove tutti potevano vederle e trovarle, che avrebbe pagato a fine turno. Elemento fondamentale, almeno dal punto di vista giuridico, perché i magistrati di secondo grado nella prima sentenza erano partiti proprio da questo per stabilire come il fatto avesse interrotto il rapporto fiduciario delle parti e, di conseguenza, la legittimità del licenziamento.

Di diverso avviso la Cassazione che ha scritto: «La sentenza impugnata insiste moltissimo sulla circostanza per cui la lavoratrice aveva gettato in un cestino le confezioni dei beni, ma visto che la vicenda nel suo complesso è avvenuta alla luce del sole questo gesto di per sè non dimostra che si tratti di un comportamento particolarmente grave sotto il profilo della intenzionalità e dolosità della condotta».

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