Nereto

Vent’anni fa il delitto dei coniugi Masi, massacrati con il machete dentro casa. Il procuratore: «Non gettiamo la spugna»

4 Giugno 2025

La vicenda di Nereto del 2005. Picardi: «I familiari non sono soli nella ricerca della verità su quella notte. Finché si può noi andremo avanti». Resta contro ignoti il nuovo fascicolo d’indagine aperto sull’omicidio dell’avvocato e della moglie

TERAMO. Il procuratore Ettore Picardi è perentorio: «Sul delitto Masi non gettiamo la spugna. È un dovere morale e istituzionale». Perché quando dopo vent’anni è tempo di memoria senza che mai sia stata fatta giustizia, la ricerca della verità non può e non deve essere lasciata solo ai familiari delle vittime. Ancora più in un Paese che continua a fare i conti con casi mai chiusi: vedi Garlasco, i tanti altri di prima e i tanti altri che seguiranno. Ancora più in uno Stato di diritto. E Picardi, magistrato di lungo corso con una profonda conoscenza di codici ed etica, sa di incarnare lo Stato di diritto.

Le nuove indagini sul delitto dell’avvocato Libero Masi e di sua moglie Emanuela Chelli, massacrati a colpi di machete nella loro villa di Nereto nella notte tra il 1° e il 2 giugno del 2005, portano la sua firma. Un’indagine affidata ai carabinieri, ripartita da zero con l’audizione di tante persone informate sui fatti e l’ipotesi che ad agire possa essere stata una persona all’epoca conosciuta dall’avvocato e deceduta negli anni scorsi. Picardi, che quando era sostituto procuratore ad Ascoli è stato in prima linea nelle indagini sugli omicidi di Melania Rea e Rossella Goffo, due casi risolti con condanne confermate in Cassazione e finiti alla ribalta delle cronache nazionali in questo Paese in cui i fatti di nera sembrano interessare più delle guerre, sa come muoversi nelle grandi storie di cronaca.

«Il compito è difficile perché vent’anni non sono pochi», dice, «anche se in vent’anni le tecniche investigative sono cambiate, ci sono nuovi sistemi. Finché possiamo andiamo avanti e faremo tutto quello che è possibile fare». E se dopo vent’anni una giustizia processuale piena può apparire appare difficile, qualunque possa essere l’esito delle nuove indagini , una verità storica va cercata e trovata. Ed è quella che chiedono Elvira e Alessandro Masi sulla morte dei genitori.

L’omicidio Masi resta un mistero con tante ipotesi investigative. Tante quelle rimaste tali fino all’archiviazione del 2010 quando, dopo due riaperture, c’è stata un’ordinanza di archiviazione disposta dalla giudice Guendalina Buccella oggi in servizio all’Aquila e all’epoca al tribunale di Teramo.

Per anni si è pensato che trentamila euro, parte dei quali incassati come parcelle dall’avvocato la sera prima di essere ucciso, fossero stati portati via dagli assassini in una rapina finita male. Ma il provvedimento d’archiviazione del 2010 ha rivelato che quei soldi sono stati ritrovati nel 2009 in una scatola di scarpe nascosta tra i libri di casa Masi: quindi nessuna rapina.

Negli anni è caduta anche la pista del delitto fotocopia in Svizzera. L’indagato per quell'omicidio era un operaio che a Roma abitava nello stesso palazzo in cui, all'epoca, viveva un familiare dei coniugi. E proprio a quel familiare l’uomo, chiamato per fare alcuni lavori nella villa di Nereto, avrebbe fatto delle domande sui guadagni dell’avvocato. Ma all’epoca venne accertato che in quei giorni non era in Italia. Prima ancora erano stati archiviati i tre marsicani e i due teramani indagati: i marsicani erano gli stessi che cinque mesi dopo il delitto di Nereto vennero arrestati e poi condannati (prima all’ergastolo e in secondo grado a 30 anni) per l’omicidio di Roberto Manni, commerciante di Morino.

«Le indagini», è scritto a questo proposito nel decreto di archiviazione, «hanno consentito di escludere la loro presenza nella zona di Nereto in epoca compatibile con il delitto, di apprezzare l’incompatibilità dell’ascia rinvenuta nella loro abitazione con quella usata nella villetta di Nereto e di accertare che le impronte dei tre non corrispondono a quelle trovate in casa Masi». L’archiviazione è arrivata anche per i due teramani finiti indagati dopo le dichiarazioni di un ex collaboratore di giustizia deceduto e che, secondo la giudice, «ha fatto dichiarazioni che si sono rivelate calunniose».

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