«Basta con i giovani scrittori»

Tiziano Scarpa dai Cannibali alla vittoria del premio Strega con Einaudi.

Non ha destato sorpresa ma sconcerto sì: al 63º Premio Strega, Tiziano Scarpa con «Stabat Mater» (Einaudi) era già il favorito perché arrivato primo nella cinquina dei finalisti, ma nella volata finale, il 3 luglio, ha battuto Antonio Scurati in lizza con il romanzo «Il bambino che sognava la fine del mondo» (Bompiani), dato anche lui tra i probabili vincitori.
Vittoria più che sul filo: un solo voto li ha separati. Scarpa 119, Scurati 118.
Lo scrittore che ha perso per un voto non l’ha presa benissimo: «E’ un contesto un po’ avvelenato, e il veleno avvelena. Ci sono state polemiche molto basse ed è una cosa un po’ triste», ha dichiarato Scurati.

Ma Tiziano Scarpa, ex «giovane cannibale» oggi considerato «raffinato manipolatore della lingua italiana», ostenta la tranquillità di chi con tre romanzi, tre raccolte di racconti, altrettante raccolte poetiche, un’intensa attività di drammaturgo teatrale e perfino un ruolo al cinema nel film di Monicelli «Le rose del deserto», ha vinto il premio più ambito d’Italia, e ora approda il primo agosto, come da tradizione, all’isola d’Elba per presentare il suo romanzo vincitore.

Scarpa, un voto in più e lo Strega è suo. E’ il voto che cambia la vita o i premi letterari lasciano il tempo che trovano?
«Solo dopo tre settimane mi rendo conto dell’importanza, dell’intensità e della potenza di questo premio. Ho fatto almeno 400 letture sceniche, ho girato l’Italia in lungo e in largo, ma era un’altra dimensione rispetto al premio letterario più grande d’Italia, che è una cosa che ti cambia eccome: diffonde i tuoi libri, ti fa conoscere a un pubblico vasto. Il tuo libro finisce nei supermercati, nelle edicole, nelle cartoliberie dove vendono l’ombrellone e il materassino, ti leggono su ogni spiaggia. E pensare che sono sempre stato considerato un autore di nicchia».

A quasi un mese di distanza dalla vittoria, e quindi a sangue freddo, può commentare le polemiche che hanno circondato, anche quest’anno, il premio?
«Sì, lo so, hanno detto che Mondadori e la sua controllata Einaudi hanno vinto per la terza volta. Bene, vuol dire che non c’è più la logica dell’oggi a te domani a me, com’era al tempo di Anna Maria Rimoaldi, vuol dire che vince il libro. E poi Mondadori non c’era, ed Einaudi, diciamola tutta, con me ha fatto una partecipazione di bandiera, sostituendo di fatto Del Giudice: io ho partecipato per riempire un buco, e invece il libro è cresciuto un po’ alla volta, con i voti dei licei ad esempio, dove ha riscosso successo».

I premi letterari hanno più a che fare con la letteratura o con l’industria editoriale?
«Diciamo così. Dei tre principali, il Viareggio è considerato il premio più indipendente, ma non è che smuova poi molto, né a livello di vendite né come popolarità: è un bel fiore all’occhiello. Sullo Strega e sul Campiello si fanno più polemiche perché smuovono cifre grosse in termini di copie vendute, e regalano nuovo pubblico. Quindi, se lo vince uno come Tiziano Scarpa c’è quest’aria un po’ da: Come hai osato? Come ti sei permesso?».

I romanzi che hanno vinto le ultime tre edizioni dello Strega, Ammaniti Giordano e il suo, raccontano di adolescenti. Da cosa nasce la storia di «Stabat Mater?»
«Io racconto di una adolescente molto poco giovanilistica, è una ragazza disperata e molto radicale. La sua storia di orfana che raggiunge il successo con un atto di autonomia e insubordinazione parte da un dato personale: sono stato dato alla luce all’orfanotrofio della Pietà, quello in cui si trova la protagonista, quindi è un luogo che mi appartiene come nessun altro, perché ci sono nato: lì è l’istituzione che diventa tua madre, ti cresce e ti dà pane e anima. Da qui nasce il mio romanzo».

Non è un momento facile, soprattutto italiano. La letteratura dorme o risveglia?
«Come sarebbe? Negli anni di Saviano, Moresco, Aldo Nove, Starnone e Ammaniti, e dei tanti romanzi di denuncia, chi osa dire che la letteratura dorme?»

Lei è stato considerato per anni un giovane scrittore, faceva parte dei cosiddetti cannibali. Adesso che è consacrato dal premio letterario più importante d’Italia, vuol dire chi sono oggi i giovani scrittori su cui puntare?
«Ho scritto tempo fa una cosa che si intitolava Aboliamo i giovani scrittori, e facevo un elenco dei capolavori scritti a venti anni. Leopardi aveva ventun anni quando ha scritto L’Infinito. Mi rifiuto di usare la parola giovane scrittore, che è solo una categoria consumistica. Si può casomai parlare di nuovi scrittori, anche se hanno ottant’anni. Ricordiamoci poi che siamo nella terra di Palazzeschi, che è rinato moltissime volte: futurista, neoavanguardista, popolare. Guardiamo al rinnovamento dei veri artisti piuttosto, perché la scrittura non ha limiti d’età. Per questo se devo dire dei nomi cito scrittori non giovani e parlo di Giorgio Falco e Nicola La Gioia, autori che stanno tra i 30 e i 40 anni e non sono neanche agli esordi».