D’Alessandro (Dalibrà Vini): «Ecco come i dazi uccidono i piccoli produttori»

L'ex deputato del Pd, oggi imprenditore vitivinicolo: «Gli importatori caricano su di noi il 50%. Solo le grandi aziende possono resistere pur con margini di guadagno più bassi»
ORTONA. Da Montecitorio alla vigna. La storia di Camillo D’Alessandro, già deputato del Partito Democratico, successivamente approdato a Italia Viva – di cui è coordinatore regionale – è una via di mezzo tra un Cincinnato moderno e un vignaiolo d’avanguardia che ha scelto il biologico con la testa dentro la memoria. Se consideriamo che questo è un periodo in cui le aziende sono mani e piedi incatenate dentro la trappola dei dazi di Trump, gli scenari non sono rassicuranti.
«La verità sui dazi», osserva D’Alessandro, «non è esattamente la pacca sulla spalla che la narrazione governativa, nazionale ed europea, i grandi produttori, piuttosto che accomodate organizzazioni di categoria vogliono fare credere, ma incide profondamente sul settore del vino». Tradotto: “Vi spiego come i dazi uccidono i piccoli”.
«Rispetto allo stesso mese dello scorso anno», dichiara il produttore, «le esportazioni in generale del Made in Italy verso gli Usa sono crollate del 21%, su alimenti e bevande ancora peggio, il crollo è del titolare 25,8%. Nel mentre sono crollate le esportazioni in Italia, rispetto allo scorso anno, sono aumentate le importazioni in generale del 68,5%, cioè gli altri Paesi del mondo aggrediscono commercialmente l’Italia e l’Europa che diventa mercato alternativo all’America. Altro che va tutto bene».
Torniamo al vino. «Vi racconto cosa succede realmente per i piccoli e medi produttori sul mercato», la ricostruzione del titolare della Dalibrà Vini con vigneti impiantati dal nonno tra Ortona e Orsogna – che deve il nome ai due soci, l’ex deputato e Gianfranco Librandi. D’Alessandro si occupa, tra le altre cose, della promozione e del marketing del vino.
«A maggio siamo stati a Vinexpo America a Miami», rammenta, «e si paventavano i dazi. Siamo ripartiti recentemente e siamo appena rientrati dall’America. Il ragionamento degli importatori è questo: ai dazi al 15% si aggiunge la svalutazione del dollaro sull’euro. Sommando fa 20-21%. E gli importatori non si fanno carico di questo costo aggiuntivo, che a sua volta dovrebbe essere trasferito sul consumatore finale, ma non c’è disponibilità del mercato, in una nazione, gli Stati Uniti, attraversata da una pesante crollo del potere di acquisto».
Proviamo a fare un esempio. «A inizio anno», la sua spiegazione, «la bottiglia italiana che usciva dalla cantina a 5 euro – la media è molto inferiore – veniva rivenduta a 11,5 dollari dall’importatore. Tra dazio e svalutazione della moneta statunitense, il prezzo della stessa bottiglia andrebbe vicino ai 15 dollari. A sua volta il prezzo finale di vendita, rispetto a quello di origine, passa da un aumento del 123% ad un aumento del 186%».
E cosa succede? «A questo punto», risponde, «gli importatori pretendono dai produttori vitivinicoli di farsi carico di parte del dazio, solitamente la metà, abbassando i prezzi che già arrivano sul mercato in media molto bassi e competitivi, con ristretti margini. Gli effetti ovviamente sono diversi per i piccoli e per grandi, con questi ultimi che possono maggiormente resistere, ma con margini sempre più bassi. Paradossalmente i dazi realizzano un’operazione “pulizia” sul mercato dei piccoli a favore dei grandi che, pur con prezzi più bassi, contano nel tempo di aumentare i volumi lasciati liberi dai piccoli produttori. Insomma non è esattamente la narrazione che raccontano».
Nella filiera chi ci rimette maggiormente? «Gli effetti arrivano a terra, intendo dire a chi lavora la terra; quanto rimane al contadino, al viticoltore? E nel dibattito sui dazi mancano proprio loro, mi stupisco che nella catena di produzione-trasformazione-commercializzazione non ci si ponga la grande questione di quanto rimane a chi lavora».
©RIPRODUZIONE RISERVATA