Dialetto e identità, Marsilio: «L’Abruzzo può diventare una storia di successo»

Enrico Melozzi e Marco Marsilio

21 Settembre 2025

Nell’ampio dibattito acceso dall’intervista ad Enrico Melozzi sull’importanza dell’identità regionale e sul ruolo del dialetto, interviene il presidente della Regione che le idee di Melozzi le ha sposate con “La Notte dei Serpenti”. E spiega perché

PESCARA. Non sto nella pelle per la gioia di aver sollevato un dibattito e un’attenzione sulla cultura popolare abruzzese (dialetto, musica, saltarello, folklore) mai visti prima. E di cui il Centro si è fatto tribuna e stimolatore. Ma partiamo dall’inizio: il progetto della Notte dei Serpenti nasce da una mia domanda che ho spesso sollevato in attesa di una risposta convincente: cosa ha di meno la tradizione popolare della nostra Regione rispetto ad altre?

PIZZICA O SALTARELLO? – Per stare al modello di maggior successo: cosa ha la “pizzica” salentina di più del “saltarello” abruzzese? Intorno all’evento della Notte della Taranta, la Puglia ha costruito gran parte del suo marketing territoriale e turistico. Possiamo fare qualcosa di simile? Promuovere l’Abruzzo fuori dai suoi confini e da quelli delle sue comunità di emigranti, per farlo diventare una storia di successo, un luogo da scoprire, una curiosità da soddisfare per un numero sempre maggiore di persone, fondando la crescita e lo sviluppo economico della nostra terra sull’esaltazione delle sue radici. Missione difficile e complicata, perché come hanno ricordato diversi dei soggetti intervenuti nel dibattito, l’abruzzese in passato ha persino sofferto un complesso di inferiorità rispetto ad altre culture regionali ritenute più nobili. A casa mia, nei giorni di festa, la buonanima di mio padre doveva lottare con noi figli rockettari per poter mettere nello stereo le musicassette con l’organetto (di cui adorava la versione del ddu’bbotte). La riscoperta delle tradizioni popolari è storia recente, ed era tempo che l’Abruzzo vi partecipasse.

La risposta che cercavo me la diede Enrico Melozzi, conosciuto dopo il trionfo a Sanremo con i Maneskin. Artista emergente e popolare (con una solidissima formazione classica), mi risponde che il saltarello non ha niente di meno della pizzica: semmai ha qualcosa di più. Più ritmico, più allegro, più musicale. Organizzo una riunione all’Aquila, con alcuni assessori della giunta e il presidente del consiglio, che invito a ragionare con Melozzi e con un altro “monumento” della cultura demo-etno-antropologica, il maestro Ambrogio Sparagna. Facciamo un pomeriggio di brain storming, ci rivediamo più volte. Approfondiamo e studiamo insieme. Per inciso, conoscevo perfettamente la sua formazione di sinistra. Questo non mi ha impedito di riconoscere il suo valore artistico. Da ragazzo, sul giornale satirico Morbillo di cui ero precoce editore, pubblicai un poster con il titolo “Tutti gli uomini di qualità sono fratelli” sopra le immagini di personaggi iconici di destra e di sinistra, suscitando grave scandalo in entrambi gli ambienti. Sono cresciuto così e non ho cambiato idea.

MELOZZI E SPARAGNA – Il risultato di questo lavoro prevedeva due percorsi in parallelo di cui la Notte dei Serpenti (geniale invenzione frutto dell’estro artistico di Melozzi) sarebbe stato l’evento clou. A preparare il terreno e a disseminare ci avrebbe pensato il Tra - Festival della Transumanza, affidato alla direzione artistica di Sparagna, con plurimi appuntamenti nei piccoli centri e un concerto finale addirittura a Roma nella cavea dell’Auditorium di Renzo Piano (le edizioni più recenti hanno registrato il cambio alla direzione artistica, anche se mi auguro che si possa tornare a lavorare insieme a un artista del calibro di Sparagna).

Dal Tra è nato anche un festival del salterello che il Gal del Gran Sasso ha sponsorizzato a Castel Castagna, e continuano a nascere nuove proposte. A conferma che non è vero che un grande evento si fa a danno di cento piccoli. È vero il contrario: l’evento “grande” crea il terreno fertile per farne nascere altri cento, soprattutto quando questo rapporto è stato pensato simultaneamente, in sinergia. È come nell’industria: la grande fabbrica dà vita alla filiera delle Pmi, non il contrario.

CENTINAIA IN COSTUME – Lo dimostra anche la presenza sottopalco di centinaia di persone in costume, decine di associazioni, di cori, di corpi di ballo e gruppi folk che hanno partecipato da protagonisti all’evento. Non erano lì per caso. Sono stati coinvolti, hanno sentito e percepito che, finalmente, la Regione li considerava parte importante della propria programmazione culturale. Lasciatemi dire, su questo tema, che essere stato flagellato in campagna elettorale per aver distribuito troppi piccoli contributi a migliaia di associazioni e pro-loco della Regione smentisce a sufficienza la critica che il “grande evento” avrebbe sottratto fondi alle politiche culturali della base. E sarebbe agevole dimostrare, da parte mia, che in questi sei anni di governo Marsilio le manifestazioni e le Istituzioni culturali abruzzesi hanno ricevuto riconoscimento e sostegno economico in misura maggiore del passato.

IL TEATRO APERTO – Le prove aperte nel teatro di Atri sono un altro frutto eccezionale di questo progetto. Quindici giorni con il teatro aperto dalla mattina alla sera, costantemente pieno di spettatori, la fila di fuori per assistere. Per non parlare delle centinaia di artisti giovani e anziani che si sono presentati alle selezioni per entrare nel coro o nell’orchestra. Un fermento culturale e artistico da fare invidia.

DI PIETRANTONIO, E IL GOSPEL? – Il dibattito scatenatosi dopo l’intervista in cui Melozzi propone un dialetto e un ballo “semplificato” per aprirsi al grande pubblico ha prodotto interventi di diversa qualità, che vanno dalla polemica politica (con punte di volgarità e insinuazioni che squalificano chi le pronuncia) alla riflessione culturale più profonda. Premetto che condivido parola per parola, nel merito, l’editoriale che ha firmato il direttore Luca Telese. Non condivido per niente la critica alla semplificazione del dialetto in nome di una purezza filologica che nessuno intende intaccare: nessuna cultura dialettale si impone al grande pubblico attraverso una rappresentazione pura e originale. Il siciliano di Montalbano o del Gattopardo non è la lingua originale, non lo sono le espressioni romanacce degli attori capitolini (lontanissime dal romanesco autentico, ormai un reperto fossile), e pure il toscano volgarizzato da cinema, tv e cabaret di toscano ha solo le vocali aspirate. Perché se ognuno parlasse il dialetto stretto e autentico, farebbero fatica a capirlo anche nel suo stesso paese. Per questo ritengo surreali alcune punte polemiche che ho ascoltato sull’argomento. Anche Donatella Di Pietrantonio, della quale ho la massima stima e di cui ho voracemente letto i suoi romanzi principali, ritrovandoci uno spirito famigliare che ho respirato nella mia vita privata, inserisce nei suoi testi un dialetto semplificato e ridotto all’essenziale, al fine di renderlo comprensibile. Fa la stessa operazione di Melozzi in campo letterario, non ci trovo conflitto. E la assicuro che nessuno vuole “imporre dall’alto” un parlato diverso da quello che nasce dal basso. Entrambi, quando devono rivolgersi al grande pubblico scelgono un registro che sia leggibile e comprensibile. Mi dispiace, invece, che si sia sentita addirittura umiliata dal fatto che il concerto fosse troppo allegro e distante dal clima di sofferenza e dolore da cui nascono gran parte dei canti popolari, e che il concerto lo abbia liquidato come una “svendita al mercato” delle nostre tradizioni. Sono convinto che quest’ultimo rilievo sia il frutto di un suo radicato pregiudizio ideologico e culturale, sul quale non possiamo che marcare la differenza. Sembra quasi che per alcuni il successo debba sempre rappresentare un elemento peccaminoso e corruttivo di una purezza originaria. Io sono invece molto felice che una cosa che abbiamo inventato per far conoscere la nostra cultura abbia sfondato e abbia catturato l’interesse della Rai (che spero vorrà investirci sempre di più), che è la più grande azienda pubblica di produzione culturale e intrattenimento d’Europa. Quanto alla sofferenza, racconto un aneddoto familiare: mentre assistevamo al concerto in tv, mia moglie (che è sarda) a un certo punto ha notato che vi fossero troppe canzoni tristi, con ritmo lento e sonorità sofferenti. Non troppo poche. Capisco il punto di vista di Donatella, ma credo che Melozzi, anche qui, abbia fatto un mix necessario di toni e registri. Perché in un concerto di piazza, ci si va per ballare e stare allegri. Anche il jazz e il gospel nascono dalla sofferenza degli schiavi neri d’America nelle piantagioni di cotone. Ma la musica che ne è nata è la quintessenza del divertimento e dell’allegria, e i musicisti neri hanno conquistato il mondo facendolo ballare e divertire, non facendolo piangere. Senza nulla togliere alla radice di fatica e sudore da cui nascono certi versi e certi ritmi.

SETAK, QUALE CONFLITTO? – Diverso il rilievo di Setak: un artista che ha scelto di percorrere una strada più lenta, che sedimenta in tempi più lunghi, che si concentra su un pubblico di nicchia e consapevole della difficoltà. Gli auguro di raggiungere presto il successo che merita, anche tra il grande pubblico, e se ci riuscirà scrivendo testi e musiche originali in dialetto ne saremo tutti orgogliosi. Anche qui: dove sarebbe il “conflitto”? Io vedo le due operazioni come complementari, e sono anzi certo che se la Notte dei Serpenti, con la sua opera di semplificazione e apertura al grande pubblico andrà ancora avanti, creerà il terreno fertile per il successo anche di operazioni più sofisticate come il progetto artistico di Setak. Inutile dire che il mio sogno è Setak al Festival di Sanremo, dove la canzone napoletana ha sdoganato il dialetto nelle ultime edizioni, diretto da Melozzi.

LA NOTTE DEI SERPENTI – Perché la Notte dei Serpenti deve servire come una porta di accesso, un punto di contatto, un assaggio di un mondo molto più complesso e stratificato della sua rappresentazione televisiva e scenica. Tra il milione e oltre di italiani che hanno seguito lo spettacolo, noi scommettiamo su almeno qualche decina di migliaia che si saranno incuriositi ed emozionati, che avranno sentito nascere la voglia di scoprire tutto il resto, di andare in profondità, di scavare per trovare le radici e i sapori autentici della nostra terra. È questo il ritorno al territorio che questo progetto ci lascia. Un progetto che ha reso le nostre tradizioni protagoniste di una prima serata in Rai come a poche Regioni è concesso, piaccia o non piaccia la maniera di rappresentarlo (e, su questo, le scelte artistiche appartengono alla direzione di chi ha inventato il format, e la politica – me per primo – è rimasta e deve rimanere un passo indietro). E come mai era avvenuto nei cinquanta anni precedenti. Scusate se è poco!

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