Dimenticata da Teramo Atri guarda al futuro e strizza l’occhio a Pescara

Come una sposa frustrata dalle troppe disattenzioni, Atri minaccia il divorzio da Teramo passando con l’amante Pescara. Ma, ascoltando gli atriani, si direbbe che da qui a diventare «pescaresi» ce ne passa

ATRI. Alleanze, tradimenti, delitti, vendette: non correva buon sangue tra i duchi di Acquaviva di Atri e la famiglia Melatino di Teramo. Anzi, meglio: il sangue scorreva a fiotti lungo i vicoli bui, teatro di duelli e agguati a fil di spada nel lontano tardo Medioevo che vide le due antiche città e i loro governanti rivaleggiare per espandere domini e potere. Una rivalità nel tempo sopita e che a volte riemerge: come una sposa innamorata e frustrata dalle troppe disattenzioni, Atri di tanto in tanto si fa sentire e minaccia il divorzio da Teramo, alias referendum per cambiare provincia, passando con l’amante Pescara. Nei secoli la città ducale ha conservato, gelosamente, una sorta di signorile distacco dal capoluogo aprutino, forte di una storia millenaria che vuole che abbia dato i natali alla famiglia dell’imperatore Adriano e che il nome del mar Adriatico lo si debba al porto romano di Hatria, di cui la Torre di Cerrano è magnifica traccia.

Un distacco che ha generato autonomia culturale, artistica, architettonica, urbanistica, così da fare di Atri uno scrigno prezioso, con teatro, musei, palazzi, chiese splendide, cattedrale sontuosa, tradizioni e antichità conservate perfettamente. E poi, nella modernità, un ospedale, il San Liberatore, non grande ma di livello qualitativo elevato, divenuto prima «industria» del territorio, tra occupazione diretta e indotto economico, e che ora «rischia di chiudere senza che la Asl di Teramo muova un dito», protesta il Comitato cittadino per la difesa dell’ospedale, che ritiene che l’Azienda sanitaria pescarese invece interverrebbe per tutelare il San Liberatore. Insomma la città ducale vuole conservare e rilanciare il proprio ruolo nella sanità regionale che sta cambiando; inoltre la sua nobile autonomia è divenuta, nel corso dell’ultimo dopoguerra, isolamento non più dorato. Teramo sembra essersi «vendicata» dell’indifferenza degli atriani, aggiungendo distanze a distanze. Così la strada che collega i due centri scavalca i calanchi tra mille curve ghiacciate d’inverno, mentre la costa chiama, facile facile da raggiungere, sempre più densa di attrattive commerciali, possibilità occupazionali, regni dello shopping e del divertimento. Ma da qui a diventare «pescaresi» ce ne passa.

Se a Teramo gli atriani riconoscono una comune origine e storia, a Pescara guardano con una punta di snobismo benevolo, come si guarda un parvenu che fa di tutto per accreditarsi tra chi vanta antiche tradizioni, anche se poi l’audacia della sfida moderna del capoluogo adriatico li affascina e li attira e soprattutto è diventata necessaria per avere un futuro. Così la proposta di un referendum popolare, che con cadenza ormai quasi annuale rispunta perché siano gli atriani a scegliere se «restare » con la Provincia di Teramo o «andare» con quella di Pescara, diventa più una provocazione, un modo per dire: «Ci siamo e vogliamo esistere, non potete toglierci tutto, dopo la sede vescovile e la Usl anche l’ospedale, e ignorarci, lasciarci relegati in collina, a 40 chilometri, che diventano 80 per le condizioni della viabilità, da un qualsiasi documento o analisi clinica ». «Questa è terra teramana, si respira aria teramana qui, a livello di tradizioni, ma non solo», osserva Rocco Ferri buttando un’occhiata alle spalle di corso Elio Adriano, su una veduta del Gran Sasso spruzzato di neve che mozza il fiato.

«Però Pescara è più avanti, più dinamica, più organizzata. Io sono geometra, lavoro con il catasto e noto che per esempio i tempi burocratici sono molto più veloci. E poi per andare a Teramo ci vuole un- ’ora, quanto serve per andare e tornare da Pescara». «E il traffico nelle due città è poi lo stesso», osserva Domenico Angelozzi, «però pescaresi no, non se ne parla». I due amici si godono la mattina di sole tra le bancarelle del mercato. La vigilia dell’Immacolata è festa grande ad Atri, con la sua secolare «Notte dei faugni», altissimi falò che illuminano i quartieri. E quando è festa c’è più tempo per fermarsi a parlare: «Sì, subito andrei con Pescara », attacca convinto Pasquale Leonzio, infermiere al San Liberatore, «In fondo non mi convince neanche il discorso delle radici storiche: noi eravamo con Penne no? La stessa diocesi. E poi noi siamo culturalmente marinai, avevamo il porto. Teramo ci tratta come uno straccio vecchio. Hanno distrutto il nostro ospedale, un gioiello nato negli anni Settanta che ci venivano da tutto l’Abruzzo e oltre per le eccellenze che vantava. In Cardiologia manca una sonda che costa 300 euro: per fare l’ecografia bisogna portare il paziente a Teramo. Ditemi cosa costa di più». «Se passiamo con Pescara diventeremo la sesta ruota del carro, insomma quella che non si usa mai», ribatte Gabriele Di Egidio, titolare di “Pane e dolci”.

«L’area metropolitana è già troppo estesa. Serve un collegamento migliore questo sì, ma Atri è teramana». Nel negozio entrano due ragazze: «Un filone di pane di Teramo, ben cotto», chiedono. Il signor Gabriele strizza l’occhio: «Vede? E’ il pane migliore ». Le due clienti, Fabiana Angelozzi e Giordana Della Sciucca, studentesse, confermano sorridendo, però confessano: «A Teramo ci andiamo poco, ruotiamo su Pescara per divertimenti, cinema, negozi». «Ma certo che Pescara è un polo attrattivo, ma non c’è bisogno di cambiare Provincia per passare mezza giornata a fare spese. Noi siamo figli del Gran Sasso»: non ha dubbi Carlo Foglia, titolare da 17 anni del negozio di ortofrutta all’inizio del corso. Ne ha giusto qualcuno il suo socio, Paolo Iezzi: «Siamo nati in provincia di Teramo e così moriremo. Però Teramo ci sta mangiando, si prende tutto e dobbiamo farci sentire. Ma Pescara è altro da noi».

«Atri mi ha adottato », racconta Roberto Caleffi, cremonese titolare dell’omonimo bar in via Roma, «e mi sono sempre sentito che qui ero vicino, come mentalità, a Teramo, non a Pescara ». «Ma sì, basta migliorare la strada», gli fa eco Giuseppe Iannetti, «che senso ha cambiare?». «Nessun senso», conferma Carmine Borrelli, pensionato un po’ “filosofo”: «La cattedrale sta lì da sempre e lì resterà», dice indicando il duomo, «noi siamo atriani da sempre e atriani resteremo sempre».