Gianluca Ginoble si racconta: «Io in Volo come Dean Martin»

L’intervista del Direttore al cantante de Il Volo: ispirato da nonno Ernesto, da Roseto al mondo grazie al belcanto
Da dove iniziamo?
«Voglio dirti una cosa, prima di qualsiasi altra riflessione. Noi siamo tre interpreti eclettici, cantiamo qualsiasi genere purché sia bella musica e ci piaccia. Però…».
Cosa?
«C’è una sola melodia, sul piano musicale, che ti consente di parlare a tutti, in tutto il mondo».
Addirittura?
«Mi spiego meglio. C’è una sola melodia se vuoi fare musica, se sei italiano, se vuoi essere coerente con la tua storia e se vuoi avere successo all’estero». Quale?
«La sola arte tiene insieme tutti questi fili. É un’arte antica, ma in cui tutti ci riconoscono – noi italiani, intendo – come maestri, una lingua che parla ancora a milioni di persone, e che è identificata in maniera indissolubile con la nostra cultura: sto parlando – ovviamente – del belcanto».
Questo, in realtà, sembra un ritratto del Volo. È la vostra storia, una parte importante del vostro repertorio. Sei sicuro che valga per tutti?
«No, non necessariamente parlo del Volo. Vedi, noi abbiamo cantato e cantiamo ovunque, in cinque lingue diverse, nel nostro repertorio spaziamo tra i temi, i generi e ovviamente le epoche».
Spiega meglio.
«Abbiamo cantato di fronte ai pubblici più diversi. Però il pubblico ci riconosce come ambasciatori di questa musica».
C’è un personaggio del passato che ti ispira?
«In un’altra epoca mi sarei sentito vicino a Dean Martin: un grande abruzzese, ma anche un artista profondamente internazionale».
Spiegami perché secondo te la lirica parla a persone che nulla sanno del nostro paese, che non parlano la nostra lingua, che non conoscono niente di quelle opere…
«Vorrei che tu potessi vedere le stesse facce che io vedo dal palco, nel pubblico, quando cantiamo un’aria come Nessun dorma».
Prova a descriverlo. È bello se ci riesci.
«Nessun dorma è più di un’aria. È più di un successo o di una hit celebre: è un viaggio. Partire dalla Turandot, e da una notte a Pechino, sbucare in un teatro, e arrivare a camminare, preso per mano da Puccini, per i sentieri che portano ad un sogno. Una magia, una emozione in cui tutti possono riconoscersi».
Suggestivo.
«Quando nei nostri concerti vedo quei volti incantati, mentre ascoltano la melodia più nota della storia della lirica, capisco che noi non stiamo regalando alle persone qualcosa che devono conoscere o imparare, ma che stiamo restituendo loro qualcosa che è già dentro di loro».
Cosa?
«Una musica che compie un secolo di vita, ma che in realtà è senza tempoe senza età».
E quando cantate Puccini tu leggi sui volti delle persone che si celebra questo rito?
«Sì. Tutti abbiamo una storia incantata, dentro di noi, ma nessuno può arrivarci se non attraverso il sogno. È bellissimo sapere che sei tu a renderlo possibile. Per questo posso cantare Nessun dorma, per mille volte, in cento stadi diversi, ma è sempre come se per me fosse la prima volta»
Ma il belcanto è ancora vivo nel tempo presente? O è una lingua luminosa ma morta, come il latino e il greco antico?
«Stai scherzando? Le scuole e i conservatori sono piene di anglosassoni, di sudamericani, ma persino di tanti coreani e giapponesi che studiano, anche con grande fatica, la nostra lingua e la nostra musica per poter cantare in italiano».
Questo è ciò che ti dà più soddisfazione, quando ti esibisci con il Volo? L’emozione dell’universalità?
«Sì, lo ammetto. Per me eseguire questo repertorio significa non tradire mai ciò che noi italiani siamo».
In che senso?
«Vuol dire rendere omaggio a qualcosa che abbiamo ereditato dai nostri maestri come un dono, e che dobbiamo tramandare a chi verrà dopo di noi come una eredità».
Gianluca Ginoble, voce baritona in mezzo a due tenori nel trio lirico planetario de Il Volo. Gianluca ha trent’anni: ha un volto da eterno ragazzo che potrebbe essere rubato a Peter Pan, ma dimostra la maturità di un highlander sapiente: lessico forbito, curiosità onnivora, una passione famelica per la letteratura. È come se nei suoi quindici anni di attività il gruppo italiano più famoso al mondo avesse vissuto come dice di sé l’androide di Blade Runner: “Ho bruciato la candela della vita dai due lati”. È come se dietro il sorriso di Gianluca (abruzzese orgoglioso di nascita ma cosmopolita per esperienze e formazione) ci fosse anche qualcosa di più misterioso: mi sono sorpreso a immaginare un ritratto di Dorian Gray nascosto in qualche soffitta della sua casa natia a Roseto degli Abruzzi. Ecco perché per me non è stato facile scrivere questa intervista, che abbiamo fatto a puntate. Si impara sempre qualcosa da chi attraversa mondi diversi alla velocità della luce. Si apprende in un attimo: ma poi ci si mette molto più tempo a capire tutto. In queste righe – quasi senza accorgersene – si parla di identità nazionale, di formazione, di valori, naturalmente di musica. Questa intervista piena di vite complesse e storie è il regalo di fine anno che voglio fare ai lettori del Centro.
Gianluca, un giorno - in un dibattito pubblico – tuo padre Ercole, ha commosso la platea raccontando di come, mentre giri in tutto il mondo, non smetti mai di promuovere l’Abruzzo.
(Sorriso) «È vero. Si tratta di una questione di principio per me. Una sera, a le Circ di New York, Woody Allen ci incontra e ci chiede: “Di dove siete?”. E i miei compagni, che non hanno mai di questi problemi, gli rispondono: “Sicily!”».
E tu?
«Devo sempre ingegnarmi, a seconda dell’interlocutore».
In che senso?
«Woody Allen è un uomo colto: quando gli dico “Abruzzo” è quasi dispiaciuto, soffre il non sapere dove collocarlo. Allora gli dico: “Near Rome”. E lui: “Ah…”. Ma è perplesso, manca qualcosa».
Ti sei arreso?
«Nooh! Mai. Mi sono giocato l’ultima carta».
Hai un’ultima carta per geolocalizzarti?
«Certo. Lui chiedeva: “Where is it?”. Io gli ho risposto: “In the land of Montepulciano d’Abruzzo”. E lui mi ha subito sorriso: “Wow!”».
Miracolo.
«Pensaci. L’enologia sta sostituendo la geografia. C’è un pezzo di America che immagina la Toscana come una cantina di pregio. Noi per qualcuno siamo un vino alla mescita, ma ci siamo».
Ah ah ah.
«In casi drammatici, infine, ho anche l’ultima risorsa, sai?»
Quale?
«Il cinema: per un pubblico più giovane».
Cioè?
«Where is Abruzzo? Risposta: “In front of Game of Thrones. Ma questo non lo scrivere, ci soffro».
Partiamo dal successo stupefacente del Volo: ovunque andiate i teatri sono pieni.
(Ride) «Per ora sì».
Perché dici così?
«Vedi, molto è cambiato in questi anni. Con i miei compagni, Piero e Ignazio, ci accorgiamo che parte del nostro pubblico è cresciuto con noi: oggi ha mediamente quarant’anni. In Sudamerica, per fortuna, ci sono anche molti trentenni. Ci andiamo spesso».
Ragazzi che conoscono tutto di voi. Siete delle star.
«Se è così è anche grazie a chi ci ha preceduto: all’estero Nessun dorma è di Luciano Pavarotti come Con te partirò è Andrea Bocelli, come Bohemian Rapsody è Freddy Mercury».
Dammi un parametro.
«Abbiamo fatto un concerto con Bocelli in Vaticano, andato in onda su Disney Plus, che ha avuto 100 milioni di visualizzazioni».
Fa paura. Ma tu sei riuscito a far parlare Venditti in abruzzese, ci sono le prove.
«No, lí c’è un retroscena. La compagna di Antonello è di Francavilla».
E tu quando eri con lui hai tirato fuori il cellulare.
«Antonello fa tutto da solo e si mette a recitare: “Chiappe lú telefone Gianlù! Freghete, cumpà!”».
Hai parlato di Abruzzo persino aBarbara Streisland!
«Ah, lei è una garanzia. L’ho arruolata tra i fan. Ma vuoi sapere il vero segreto?».
Certo.
«A parte quando siamo in concerto, io non ascolto e non canto mai musica lirica».
Sei nato nel febbraio del 1995, a Roseto degli Abruzzi.
«Sono cresciuto qui: a Montepagano una bellissima frazione di Roseto. Da piccolo giocavo nella pinetina del paese».
Ti sembra un secolo fa.
«Provo grande nostalgia per l’Abruzzo della mia infanzia: perché tutto è rimasto com’era, tranne me. Sono io che me ne sono andato».
Come i migranti di inizio secolo.
«Ma io ero solo».
Eppure sei legato molto al tuo romanzo di formazione.
«Perché torno sempre a casa. Tranne che dal punto di vista fisico io sono convinto che tutti gli artisti rimangano bambini: Pueri aeterni».
È suggestivo, ma chissà se é vero.
«Nel mio caso sì. La spiegazione è semplice. Se smetti di meravigliarti non puoi giocare più».
Chi ha pesato nella tua formazione, chi ti ha avvicinato alla musica?
«Il mio nonno paterno Ernesto. Era l’anima artistica della famiglia suonava con la banda di paese».
È ancora vivo?
«In forma splendida. Ha 91 anni e una grande sensibilità musicale. Il suo strumento bandistico era il flicorno contralto».
E tuo padre?
«Beh, mio padre in questa avventura è stato tutto».
Cosa intendi?
«Un compagno, un genitore, un complice: da dilettante è diventato uno dei più grandi conoscitori della musica pop italiana, e non solo italiana».
Cosa ha fatto per te?
«Il regalo più grande che si possa immaginare. Ha abbandonato il suo lavoro da adulto per seguirmi e aiutarmi nel mio lavoro di ragazzo».
Però tutto parte da nonno Ginoble.
«Un altro pilastro è mia madre. Mi accompagnava a scuola e io lungo il tragitto canticchiavo i motivi che nonno mi aveva insegnato. Anche lei mi ha seguito e sostenuto, quando sembrava una follia».
Stai frequentando la terza media quando arriva il terremoto che cambia il tuo destino.
«La grande occasione della mia vita si porta dietro il mio grande rimpianto: io formalmente ho studiato solo fino alla terza media. Da quel momento in poi ho imparato unicamente da autodidatta».
Come Jimi Hendrix e Leonardi Da Vinci.
«Non mi prendere in giro. È una cosa seria».
Cosa accade nella primavera del 2009?
«Avevo 14 anni, stavo partecipando ad un talent per bambini, “Ti lascio una canzone”. Lì ho esordito sul palcoscenico e incontrato i miei futuri compagni di viaggio, Ignazio e Piero».
La sliding door della tua vita.
«Ero in televisione mentre i miei coetanei mi guardavano da casa».
I primi a unirvi furono il regista Roberto Cenci e la conduttrice, che era Antonella Clerici. Poi fu il produttore Michele Torpedine, l’uomo che ha scoperto Zucchero, ad avere l’idea di farvi costituire un gruppo stabile.
«Ci mise insieme sul modello dei tre Tenores. Tre “tenorini”, dicevano, anche se io – come sai – non sono un tenore».
Eravate bravi, spiritosi, spigliati: bucavate lo schermo con una naturalezza incredibile.
«Ho dei ricordi controversi di quel periodo. Parti che sei un bambino normalissimo, torni che tutti ti applaudono, ti cercano, ti mettono al centro dell’attenzione».
Un meccanismo che può essere pericoloso, e che ha stritolato molti nella storia dello spettacolo.
«Oggi ho raggiunto il distacco necessario per proteggermi. Per non cadere mai devo sempre guardarmi da fuori».
E all’epoca?
«Ero un ingenuo. Potenzialmente più fragile, ma forse è proprio la leggerezza che mi ha aiutato».
Come ti sei protetto?
«Tutto mi sembrava un gioco. E il fatto di essere in tre è stato determinante: se puoi condividere una esperienza così totalizzante con altri non ti sembra di essere folle».
Eri anche il più piccolo.
«Piero ha due anni più di me. Ignazio uno. Abbiamo avuto tutti e tre una infanzia e un’adolescenza anomala».
Che però aveva dei lati positivi.
«Pensavo: “Faccio parte di una minoranza che ha opportunità enormi: girare il mondo, imparare le lingue….”».
Verissimo. Eri così lucido?
«No, tutto andava velocissimo. Anche i miei ricordi oggi sono così compressi che fatico a distinguerli, a datarli con esattezza…. Dopo tre mesi siamo a Los Angeles a firmare un contratto con la Geffen records, una delle più importanti major americane nel mondo. Ci viene detto che siamo i primi italiani a farlo».
Era vero.
«A quell’età sei una spugna, impari l’inglese senza quasi accorgertene. Ma poi devi tornare a Roseto per dare gli esami di terza media da privatista, e torni indietro. È come stare su un otto volante».
E poi di nuovo nel mondo delle favole.
«Registrare il primo album, partire per il Sudamerica con Tony Renis, costruire serata dopo serata il nostro primo repertorio di classici italiani per i concerti».
E poi?
«Ritrovarsi ospiti di Jay Leno nel suo Tonight show».
Il mostro sacro del talk show americano.
«Ah ah ah. Erano tutti emozionati tranne noi, che fino a pochi giorni prima non sapevamo chi fosse».
Però conoscevate Gerard Butler.
«Sì, lo abbiamo incontrato a Oslo quando eravamo superospiti al Nobel Peace prize».
Per non parlare di Jennifer Lopez e Steven Tyler del gruppo rock Aerosmith, che dissero di voi, dopo la vostra esibizione al programma tv American Idol, che avevate toccato il cuore dell’America.
Siete cresciuti al doppio della velocità dei vostri coetanei.
«Sai, su questo ora mi interrogo molto».
Perché?
«Sul piano delle esperienze di certo. Ma far parte di un gruppo non significa arrivare alla scoperta della tua reale identità».
Vuoi dire che la vostra esperienza formativa non era sempre anche crescita individuale?
«No, pensaci. Ognuno di noi era sempre un 33% di quello che il mondo amava nel Volo. E poi…
Cosa?
«Era come essere sempre in gita scolastica, ma senza la scuola».
Il sogno di tutti i ragazzi.
«Il paese dei balocchi, direbbe Collodi. Pensa, mentre il mio amato fratello, Ernesto, era a scuola io cantavo per il Papa al festival della gioventù a Panama».
E quindi hai un ricordo unico di lui.
«È la prima volta che abbiamo cantato avendo come palco un altare. A pochi centimetri da lui».
Quello con Papa Francesco, però è stato rapporto irripetibile, reiterato nel tempo. In questo caso vi invidio io.
«Era scattato qualcosa, oltre il rapporto di ruolo tra un pontefice e degli artisti».
Due incontri privati.
«Gli portammo un disco con una Avemaria incisa per il Papa. E lui pubblicò sui social di Pontifex la sua foto con il nostro vinile. Non volevamo crederci: gli eravamo simpatici, ci vedeva come dei ragazzi».
E poi lo avete incontrato, ancora.
«Nel 2022 abbiamo cantato in Vaticano per la giornata mondiale della famiglia. Conservo con cura un bellissimo selfie».
Era carismatico.
«Pensa. In quel periodo ero molto scettico non mi sentivo legato a nessuna idea religiosa. Stavo vivendo una mia riflessione interiore, da solo».
E durante la giornata mondiale della famiglia?
«Quando l’ho visto su quella sedia a rotelle, con la cannula dell’ossigeno al naso, apparentemente indebolito rispetto a quando era sano, ma quasi euforico: mi sono reso conto della sua potenza. Del carisma che trasmetteva».
Spiegalo.
«Comunicava passione, energia. L’esatto contrario del suo aspetto fisico. Spogliato del corpo ti investiva con l’energia della sua anima».
Siete stati fortunati.
«Questa immagine di contrasto che Bergoglio comunicava me la porto dentro come un dono».
Torniamo al tema del rapporto simbiotico dentro Il volo: hai accennato sia ai pro che ai contro.
«La grandezza di quello che abbiamo costruito sta nella semplicità con cui abbiamo vissuto i nostri anni compresi tra i venti e i trenta».
Avevate un nome brutto all’inizio.
«Eravamo nati come un trio, il nome provvisorio era: the Tryo».
Poi avete attinto a Domenico Modugno.
«Serviva un concetto meno descrittivo, più metaforico: volare era perfetto in omaggio a Nel blu dipinto di blu».
Però…
«Non potevamo essere una copia, dei cloni. E così Volare divenne Il Volo. Più semplice, più potente».
Il primo concerto da favola che ricordi?
«Quando cantammo per per Rania di Giordania. Iniziai ad avvertire questa magia che amava oltre di noi».
Ho visto che hai un fotomontaggio curioso nella tua gallery.
«Ci sono io - quello di oggi – che abbraccio me da piccolo. Emotivamente sono ancora quel bambino».
In realtà io avverto che tu ti senti più grande della tua età.
«Per le cose che ho fatto, forse. Sul piano esperienziale, come ti ho detto, ma non su quello emotivo e formativo. Comincio a pensare che essere adulti significhi diventare padre e madre di se stessi».
Allora sono davvero pochi a riuscire.
«Infatti è pieno di gente che si crede adulta ma non lo è, anche nel nostro mondo. Riconosco subito chi ricerca l’attenzione».
Fra il 2011 e il 20*15 fate qualsiasi cosa: due album, cantare l’inno americano nella più importante finale di baseball, collaborare con le star più importanti. E poi in Italia c’è Sanremo. Quasi un evento minore.
«Per noi invece fu un traguardo. Ci eravamo stati, ma come ospiti, presentati dalla Clerici. Adesso tornavano da grandi. Come concorrenti».
E arrivando primi, con il 39% dei voti.
«Momento unico, irripetibile. Noi sul palco, e dentro l’Ariston tutti in piedi per la standing ovation».
E tu?
«Ho compiuto vent’anni davanti alle telecamere, in prima serata».
Com’è aver vinto tutto a 25 anni?
«La risposta che ti do ora è: il bambino che è in me è sempre lì. Io mi guardo agire. Riesco a godermi tutto. Però…».
Cosa?
«Le carriere sono lunghi viaggi. Ci sono dei momenti in cui – incredibilmente – praticare la gratitudine è difficile».
Cioè?
«Giorni in cui mi lamentavo sempre delle cose che non avevo. Il successo? Sì, all’estero ma non in Italia. Sanremo? Eh, ma non lo abbiamo mai vinto. L’Asia? Andiamo in Cina, dai. E tutto questo poi lo abbiamo fatto davvero».
Per fortuna Piero e Ignazio sono più pragmatici.
«Qui il 33 per cento è un vantaggio. Quando credo in un progetto lascio fare. Poi le risposte arrivano, e riesco ad essere più sereno».
I Beatles avevano George Martin, voi avete Michele Torpedine. Molto più di un produttore.
«Lui, ancora oggi, ha un dono: la visione. Tutti noi sappiamo che se ci siamo ritrovati insieme è grazie a lui. E se siamo ancora insieme è sempre grazie a lui».
Dimmi la prima cosa buffa che ricordi del vostro rapporto.
«Eravamo ragazzini, e lui porta nella boutique di un famosissimo marchio. Ci riempie la cabina armadio di vestiti e ci dice: “Ora scegliete voi!”. Non avevamo stylist. Solo noi e lui».
Come vi tratta?
«Come tre figli».
E voi?
«Noi pensiamo tutti di aver vissuto la vita di Michele».
Ovvero?
«Io ricordo come se fosse un episodio della mia vita la storia di Michele che porta il provino di Miserere di Bocelli a Pavarotti, perché vuole farglielo sentire, a Philadelphia. In una audiocassetta».
Esistevano ancora.
«Il nastro gira. Ascoltano entrambi, in silenzio. Michele è in ansia».
E poi?
«La registrazione finisce e Pavarotti dice: “Io non la canterò. La deve cantare lui”. Michele è spiazzato. Pavarotti dice: “È una delle voci più belle che io abbia mai ascoltato”. Fine».
E tu come figlio artistico come sei?
«Michele e io siamo gli unici ad esserci scontrati».
Come mai?
«Nel gioco dei ruoli delle nostre relazioni io sono il ribelle, la pecora nera».
E lui?
«Non teme il confronto. Mi dice sempre: fatti valere. Ma alla fine, prima di decidere ascoltami».
Anche nel vostro trio esistono dei ruoli.
«Io mi ritaglio quello del… creativo. Progetti idee, parte artistica».
E Piero?
«È una macchina, sempre sul pezzo: dobbiamo fare questa call, ora, il contratto va chiuso a queste condizioni, subito, bisogna mettere insieme dieci musicisti... È il mago dell’organizzazione».
E Ignazio?
«È l’Art Director musicale. Dietro il nostro sound, le nostre scelte, c’è il suo gusto».
Punto di criticità?
«Abbiamo tutti e tre il temperamento dei leader. C’è stato un tempo in cui ognuno voleva prevalere. Tensioni che abbiamo composto negli anni, con la saggezza».
Parli come Matusalemme ora.
«Pensa che nel 2029 – se ci arrivo – compirò insieme 33 anni, e venti di carriera».
In effetti.
«Ti rendi conto che siamo una delle band italiane più longeve? Potremmo battere i Pooh».
Oddio, fa impressione. È vero che prima o poi proverai a fare qualcosa da solista?
«Quando hai raggiunto tutti i traguardi apparenti senti che devi trovare un significato più profondo».
Come?
«Non mi basta essere solo un interprete. Così sento di dare il 60% di me».
Ahia! Dubbi come questo hanno distrutto i Beatles, i Pink Floyd e i Genesis.
(Sorriso) «Voglio darti una risposta netta: Il Volo non si scioglierà mai. Per tutto quello che ti ho raccontato. Siamo troppo complici. Troppo solidali. Troppe cose ci uniscono in buona o in cattiva sorte».
Cos’è che condividete?
«Io mi riconosco nel Volo: so che anche per Ignazio e Piero è così».
Ma qual è il cemento più potente tra voi?
«Siamo fieri di quello che facciamo. In tre siamo imbattibili».
Addirittura.
«Credimi. C’è un’alchimia che si percepisce. Siamo potentissimi quando saliamo insieme su un palco. Lo avvertiamo».
Ci saranno state anche ombre. Non credo all’idillio.
«Vero. Proprio per questo sappiamo quanto è costato andare d’accordo senza entrare in collisione».
Quindi immagini una tua esperienza parallela che non mette in discussione il gruppo.
«Noi non siamo una cosa sola. Arriva un momento in cui ognuno fa una resa dei conti con se stesso».
E la tua?
«Sarà indagare quali sono le maschere che indosso».
Perché sei un artista?
(Ride) «Perché sono su un palcoscenico da quando avevo quattordici anni».
E cosa vuoi capire ora?
«Quando mi spoglio di tutto chi sono davvero? Quando arrivi alla fine di ogni successo senti il bisogno di una sola cosa: l’essenziale».
Com’è il tuo rapporto con tua madre Leonora?
«È il mio archivio emotivo. Il mio grande rifugio. Lei mi sa ascoltare come nessun altro».
Da chi hai preso di più?
«Posso dire che ho preso da entrambi le parti».
Già a scuola capirono che avevi una bella voce.
«Mi chiedevano di cantare, mi mettevo dietro la lavagna faccia al muro».
Hai fatto analisi.
«Un percorso di metodo lacaniano».
E tuo fratello?
«È la persona che mi sarei scelto se avessi dovuto trovare qualcuno di cui fidarmi. Lavora con me. È più piccolo di sei anni, ma a volte è più grande di me».
E tuo padre?
«Mi ha salvato la vita due volte. Pensa che la sera della valanga io dovevo essere a Rigopiano. Mi avevano anche detto: “Ti veniamo a prendere”. Mio padre si arrabbiò guardando il cielo: “Tu non vai da nessuna parte, chiaro? Nevicherà”. Arrabbiato».
Una premonizione.
«Raramente è così duro. Se non gli avessi dato retta sarei morto. Noi figli siamo il prolungamento dei nostri genitori».
Anche tuo padre è d’accordo su questo.
«Ha completato il suo cerchio con me. Una solidarietà assoluta. Vive il mio successo come se fosse il suo. E, per sua fortuna, con meno dubbi».
Il ricordo più bello che ti ha trasmesso tuo nonno Ernesto?
«L’emozione di quando veniva accolto nelle case, nel tempo in cui girava per i paesi d’Abruzzo con la banda».
Bello.
«Una volta, che non poteva dimenticare, in una tavolata povera, per senso di ospitalità gli offrono l’ultimo pezzo di carne rimasto. Mio nonno ci pensa. Ma lo prende. Era il 1954. Anche questo che se lo avessi vissuto io».
Un novantenne d’acciaio.
«Ieri sono andato a cercarlo, non era a casa. L’ho trovato al bar che giocava a carte. Nonno è sempre con me».
Quando giri per il mondo.
«Mi accompagna la sua voce quando mi racconta: “Io ho lavorato duro, anche in fabbrica, in Svizzera, mettendo da parte soldo su soldo per tornare a Roseto”. Questa voce mi aiuta sempre, nei momenti duri».
La lezione di vita di tuo nonno vale anche per te?
«Sì. Mi ricorda che il meglio deve ancora venire».

