«Io, la prima abruzzese con la Fiamma Olimpica. Pensavo solo a mio figlio»

10 Dicembre 2025

La giornalista Eleonora Berardinetti in versione tedofora a Civitavecchia «Credevo fosse uno scherzo, che emozione portare un messaggio di pace»

Portare la Fiamma Olimpica è stato un privilegio, un momento che migliaia di persone attendono da anni e altrettante non prendono neanche in considerazione. Ho ricevuto una mail l’estate scorsa e inizialmente le ho dato poco peso. Ho comunicato la mia adesione convinta che per me Milano-Cortina 2026 sarebbe stato un evento come tanti da raccontare in qualità di cronista quando la Fiamma Olimpica il 2 e 3 gennaio prossimi sarebbe arrivata a Pescara e L’Aquila. Già tanti erano gli articoli scritti sui vari tedofori che avrebbero accompagnato in Abruzzo il Viaggio della Fiamma. Una mattina poi, leggendo le mail, sono stata attirata da una in particolare inviata dal Team Coca Cola. Quando l’ho aperta ho sorriso. «Gentile Eleonora Berardinetti», c’era scritto, «abbiamo una notizia straordinaria da condividere con te: sarai tra i Tedofori del Viaggio della Fiamma Olimpica dei Giochi Olimpici Invernali di Milano Cortina 2026». Non sono mai stata un’atleta, faccio sport perché mi piace, ma non l’ho mai vissuto a livello agonistico. Forse anche un po’ per scelta. Ricevere l’invito a partecipare a un evento storico come quello del Viaggio della Fiamma Olimpica un po’ mi inorgogliva, un po’ mi faceva sentire inopportuna nel ricoprire un ruolo che in tanti avrebbero voluto e al quale io magari non davo il giusto peso.

Con il passare dei mesi sono iniziate ad arrivare le varie comunicazioni, ma sulla data ancora nulla. L’itinerario era ormai definito e sui social iniziavano a comparire le prime immagini dei tedofori: Achille Lauro, Melissa Satta, Alessandro Cattelan, il nuotatore Gregorio Paltrinieri, l’ex rugbista Martín Castrogiovanni, il regista Giuseppe Tornatore e tanti altri. Ogni giorno mia madre mi aggiornava su un nuovo tedoforo e poi mi ricordava che sarei stata tra loro. La cosa mi faceva un po’ sorridere.

Spesso pensavo: ma ce la farò a correre? Il 21 novembre scorso è arrivata la convocazione ufficiale: «Porterai la Fiamma Olimpica il 7 dicembre nella città di Civitavecchia». In quel momento ho iniziato a realizzare che sarei stata la prima abruzzese a portare la Fiamma e subito mi sono messa a cercare foto, video e informazioni. In famiglia è iniziata l’organizzazione di coloro che mi avrebbero dovuto accompagnare, sia per non farmi arrivare da sola a Civitavecchia, sia per venirmi a sostenere. Non amo essere sotto i riflettori e l’attenzione che mi stavano riservando già solo mio marito e i miei genitori mi agitava.

Il 26 novembre la Fiamma è stata accesa a Olimpia antica e il 6 dicembre è arrivata a Roma. In serata la notizia del primo viaggio del simbolo delle Olimpiadi era ovunque e il giorno successivo toccava a me. Domenica mattina sono arrivata a Civitavecchia con mio marito e mio padre. Dopo un rapido controllo dei documenti li ho salutati e sono entrata ufficialmente nel Team dei Tedofori. Ci hanno accolto nella sala consiliare del municipio, ci hanno consegnato le divise bianche e poi ci hanno spiegato nel dettaglio cosa dovevamo fare. I tedofori venivano da diverse zone del centro Italia ed erano lì ognuno con una carica emotiva diversa. Ci è stato spiegato subito che avevamo un ruolo di grande responsabilità, stavamo portando avanti una tradizione millenaria e soprattutto stavamo portando tra le strade dell’Italia un messaggio di pace, inclusione e collaborazione tra i diversi popoli. Dopo aver fatto alcune prove sulla sistemazione della torcia e sul protocollo da rispettare siamo stati divisi in due gruppi e abbiamo iniziato il nostro viaggio. Tutti vestiti con tuta, cappello e guanti siamo usciti dal municipio ed eravamo già delle star. Fuori c’erano decine di persone che ci fotografavano, videochiamate per mostrare i tedofori e selfie a non finire. Ero veramente incredula.

Sul mini bus che ci ha accompagnato sul lungomare siamo entrati in confidenza, ognuno ha raccontato la sua storia e tutti siamo rimasti a bocca aperta nell’ascoltare le parole di Giancarlo Peris, ultimo tedoforo alle olimpiadi di Roma del 1960, che ancora una volta era pronto a portare la Fiamma Olimpica questa volta nella sua città. Dopo un ultimo meeting da parte dello staff e le raccomandazioni sull’importante ruolo che stavamo svolgendo sono arrivate le forze dell’ordine e dietro di loro la Fiamma. Uno dopo l’altro hanno iniziato a scendere dal bus i tedofori. Io e altri cinque siamo scesi insieme perché il nostro tratto di staffetta era nell’area pedonale. Quando il minibus si è fermato e si sono aperte le porte ho preso la torcia in mano e ho sorriso con l’orgoglio richiesto dalla circostanza, cosa che difficilmente mi riesce di fare. Un membro del team mi ha annunciato che la Fiamma stava arrivando. Ho cercato mio marito e mio padre, pensavo ci fossero solo loro a scattarmi qualche foto, e invece a malapena riuscivano a inquadrami per la folla che si era radunata. Quando ho visto da lontano il tedoforo arrivare ci siamo guardati con complicità e abbiamo sorriso entrambi. Mi sono avvicinata e dopo “il bacio” delle torce, la mia ha iniziato a brillare e sono partita.

Sono stati trecento metri lunghissimi, con una carica di emozione, tensione e gioia. Un mix paragonabile forse solo al tratto che separa l’ingresso in chiesa dall'altare il giorno del matrimonio. Scendendo le scale che dal viale centrale di Civitavecchia mi portavano sul suggestivo lungomare ho pensato a mio figlio Tommaso che un giorno avrebbe raccontato al mondo intero l’impresa della mamma e ho stretto la torcia soddisfatta con l’anello di nonna Giuliana al dito pensando a quanto era orgogliosa di vedermi dal cielo portare la Fiamma Olimpica. Intorno a me c’erano centinaia di persone, la musica, gli speaker, gli atleti delle associazioni sportive della città e tanti, tanti curiosi. Per una volta non ero io a raccontare quello che stava accadendo, ma ero dall’altra parte, circondata da fotografi e da gente che mi scattava selfie senza neanche conoscere il mio nome.

Sono stati trecento metri infiniti, ho camminato con la schiena dritta e ho sorriso. Mentre il sole scendeva sul mare di Civitavecchia con la sua luce calda, la banda suonava a festa e centinaia di persone ci circondavano entusiaste, ho acceso la torcia della persona che era dopo di me e ho affidato a lei il compito di portare avanti questa prassi millenaria. Perché c’è sempre una storia da raccontare e una tradizione da tramandare.

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