L'eclissi di sole, la morte della luce che non spaventa

Migliaia di abruzzesi incantati dal fascino della luna che copre il sole

L'eclissi di sole porta a un congelamento dei rapporti, dell'amore. La pensava così, Michelangelo Antonioni.

In una pagina di diario nel 1962, il regista di «Blow Up» scriveva: «A Firenze per vedere e girare l'eclisse di sole. Gelo improvviso. Silenzio diverso da tutti gli altri silenzi. Luce terrea, diversa da tutte le altre luci. E poi buio, immobilità totale. Tutto quello che riesco a pensare è che durante l'eclisse probabilmente si fermeranno anche i sentimenti. un'idea che ha vagamente a che fare con il film che stavo preparando, una sensazione più che un'idea, ma che definisce già il film quando ancora il film è ben lontano dall'essere definito. Avrei dovuto mettere nei titoli di testa di "L'eclisse" questi due versi di Dylan Thomas: "... qualche certezza deve pure esistere, se non di amare bene, almeno di non amare"».

Parlava, Antonioni, del film che avrebbe girato di lì a poco con Jeanne Moreau e Alain Delon.
Era l'eclissi totale del 1961 a suggerirgli quella riflessione sulla sospensione della luce come metafora dell'estenuazione sentimentale che lo rimandava al poeta gallese che, non in quei versi che lui avrebbe voluto mettere come esergo al suo film, ma in altri (forse i suoi più famosi) inveiva contro un'altra e ben più definitiva morte della luce.

Quelli di «Do not go gentle into that good night»: «Non andare docilmente in quella buona notte/ Che i vecchi brucino e infurino quando il giorno finisce/ Infuriati, infuriati contro la morte della luce».

Era la definitiva e subitanea eclissi della morte quella contro la quale invitava a scagliarsi, Dylan Thomas, così diversa dalla lenta attenuazione della luce che abbiamo osservato ieri mattina.

E' mancato l'esito perturbante del buio completo, simile a una dissolvenza in nero, che emozionò Antonioni, quasi mezzo secolo fa: quel precipitare irragionevole del giorno nella notte dell'eclissi totale.

L'ultima volta fu nell'estate 1999, quasi un addio simbolico al secolo breve che fu spesso testimone di lunghissimi sonni della luce, di buio della ragione.

La parabola incompleta tracciata nel cielo, ieri mattina, dalla luce alludeva, piuttosto, a uno scarto nella trama consueta delle cose, a una sospensione non minacciosa del ritmo ordinario della vita quotidiana alla quale abbandonarsi con la stessa incuriosita fiducia che i bambini nutrono nel finale che riscatta anche la più terrificante delle favole gotiche.

Era la luce a cavallo adorata da Magritte, quella che sorprende i sensi poco prima e poco dopo il tramonto, quella di un suo famoso cielo diurno che sovrasta placido una strada notturna soltanto debolmente rischiarata dai lampioni. Una normalissima luce diurna che soltanto il contrasto con le tenebre sottostante trasforma in un enigma fisico e mentale, in una piccola sfinge senza mistero.

La luce, insomma, che si carica di senso ulteriore e di significato non scontato grazie al suo contrario.

La luce che Shakespeare celebra in un suo Sonetto (il quarantatreesimo), quello che fa: All days are nights to see till I see thee, And nights bright days when dreams do show thee me. (Tutti i giorni sono notti da vedere finché non vedo te, E le notti giorni luminosi quando i sogni ti appalesano a me).

La luce che non minaccia di farsi inghiottire dal buio ma, che attenuandosi lentamente, sembra dirci che - anche in un martedì mattina anonimo e senza storia di inizio gennaio - è possibile fermarsi a guardare il cielo così, senz'altro scopo che quello di un'infantile meraviglia.

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